un amore perfetto - a cura di michele zanetti

Un amore perfetto

Ricordo molte cose della mia infanzia. Episodi che mi sono rimasti incisi nella memoria forse per le emozioni da cui sono stati accompagnati. Come ben sai, la memoria è una funzione singolare del nostro cervello e a volte si comporta in modo strano; soprattutto a tanta distanza di tempo. Ci sono cose che, ad esempio, ricordo benissimo ed altre invece che sono state cancellate, quasi fossero svanite tra i veli nebbiosi del tempo, che tutto lenisce e tutto guarisce, come una medicina che ciascuno di noi non può evitare di assumere.

Non so se ti conforterà o ti piacerà quello che sto per raccontarti, ma credo che proprio tu, più di qualsiasi altra, sia la persona che può capire. Quella, insomma, cui posso confidarlo. Anche perché, te lo confesso, non ho mai raccontato questo episodio segreto della mia vita di adolescente, ad alcuno.

 

C’era una grande quercia oltre il ponticello che scavalcava il fosso; e il fosso segnava una sorta di confine, di frontiera tra il domestico delle abitazioni, dei cortili e delle stradine lastricate del borgo e la campagna della collina.

Di quel fosso, incassato tra le terre rosse degli uliveti e di quell’albero, vecchio ma ancora forte e vigoroso, sapevo, conoscevo tutto. Posso ben dire, a pensarci bene, che i miei quattordici anni li avevo trascorsi per buona parte lungo le sponde selvose di quel piccolo corso d’acqua o sotto le fronde generose d’ombra di quella quercia.

E pensare che saranno almeno cinquant’anni che manco da quei luoghi. Dopo la morte della nonna non ci sono più tornato. Forse … non so, forse per una sorta di segreto e interiore rifiuto. Forse per non rompere un incantesimo che si conserva intatto nella mia mente. Chissà; un giorno o l’altro dovrò fare i conti anche con questa storia e dovrò trovare il coraggio per tornare, da pellegrino dell’anima, in quel luogo. Se non altro per farmi perdonare e per mettermi il cuore in pace. O forse, ma si, forse per essere certo che loro, il fosso, il ponticello e la quercia, mi sopravviveranno.

Perché con loro sarà la mia storia, quella che sto per raccontarti, a sopravvivere e a profumare ancora e forse per sempre, la brezza tiepida della primavera di collina.

Questa però è un’altra cosa; scusami se mi sono distratto.

 

Ecco, il ponticello, fabbricato in mattoni non so quanti anni prima, era delimitato da due ali: due parapetti, insomma. Due muretti non più alti di un metro; e quanto alla quercia, che affondava poderose radici sulla stessa sponda di ponente del fosso, si collocava al margine di un piccolo prato.

Non un prato di quelli che tu frequenti quotidianamente; non come quello del giardino qui, di fronte, ma un prato magro, arido e polveroso, di gramigna tenace, che non si arrendeva mai, neppure alle innocenti violenze dei nostri giochi.

Tra le nostre case e la campagna, tra le abitazioni e la collina degli uliveti, delle forre e dei frammenti di selva, sopravvissuti a millenni di lavoro contadino, c’era dunque quella singolare terra di nessuno. Quel frammento di periferia segnato dal calpestio, dalle corse, dalle gare e dai giochi di generazioni di ragazzini, ciascuna delle quali l’aveva ereditata da quella precedente, per decenni o forse, per secoli, così com’era.

Quando si usciva di casa, dopo aver assolto ai nostri doveri scolastici, ecco che si raggiungeva il fosso e, superato il ponte, il prato rinsecchito che la quercia sottraeva agli artigli del sole con la sua ombra profumata.

Certo, ti sembrerà retorica e un tantino melensa questa immagine, questa espressione “ombra profumata”, ma qualche licenza poetica devi pure lasciarmela. Come ben sai, tutto è profumato nell’adolescenza e per quanto mi riguarda, quegli aromi di Mediterraneo che aleggiavano nell’aria a primavera e che mi accoglievano nel mio, nel nostro rifugio dell’anima, ancora li percepisco talvolta, intatti.

 

Accadde di pomeriggio ed era di maggio, il mio mese preferito; e non saprei dirti, in tutta sincerità, se maggio sia divenuto tale proprio a seguito di ciò che sto per raccontarti o se lo sia sempre stato.

Del resto, quello è il mese in cui la primavera danza sui declivi collinari, in cui gli usignoli cantano la notte e in cui i grilli sembrano intonare concerti corali sotto fiumi di stelle. E anche questa è solo apparentemente retorica.

Lei era seduta sull’ala del ponte.

La vidi avvicinandomi, ma ti confesso che prima di vedere che era una ragazza, vidi piuttosto che c’era qualcosa, un particolare insomma, che rendeva diversa la familiare immagine del ponticello e della quercia che sorgeva alle sue spalle. Così, a colpo d’occhio, quel quadro così consueto e solitamente essenziale nella solitudine che lo caratterizzava, appariva all’improvviso turbato dalla presenza di una figura che non conoscevo.

Mi resi conto che gli zingari s’erano accampati nel prato soltanto quando fui a non più di venti passi dal ponte. E fu una sorpresa, che mi colse alla sprovvista e che di primo acchito suscitò in me una certa contrarietà. Se c’erano loro, addio giochi, addio conciliaboli con gli altri ragazzi e chissà per quanto tempo. Perché loro, i nomadi, non si sapeva quando arrivavano, ma neppure si sapeva quando sarebbero partiti.

I loro carrozzoni, coperti da teli come quelli dei pionieri americani, s’erano disposti a semicerchio e avevano occupato l’intero nostro prato, alle spalle della grande quercia. I cavalli, ronzini di età e razza indefinibile che avevano calpestato le strade dell’Europa intera, erano al margine del prato, verso la boscaglia e brucavano l’era secca e dura su cui noi giocavamo a pallone.

Gli zingari non erano amati dalla gente del paese; erano ladri, si diceva, persino di bambini e quand’eravamo più piccoli ci era vietato severamente avvicinarci ai loro accampamenti.

Ora però avevo quattordici anni: ero un uomo e loro non mi facevano più paura; anzi, mi incuriosivano. Di pelle bruna, vestivano abiti colorati e suonavano il violino e strani tamburi ed erano chiassosi e sempre allegri; tanto quanto era silenziosa e poco incline al sorriso la gente del paese. Sembrava quasi che questo loro continuo viaggiare disponesse i loro animi a festeggiare qualcosa che mi sfuggiva e che sembravano ritrovare proprio nella dimensione misteriosa di quella vita senza meta e senza patria. Insomma, sembravano in pace con il mondo, non sé stessi e persino con coloro ed erano tanti, che li accoglievano con ostilità ovunque approdassero.

 

Giunto sul ponticello mi fermai. Non volevo che mi scoprissero a curiosare con lo sguardo nei loro temporanei spazi domestici. Una sorta di pudore me lo impediva e avevo la sensazione di non avere il diritto di entrare in quella loro speciale sfera del quotidiano.

Fu solo a quel punto che vidi la ragazza; o meglio, fu a quel punto che mi volsi verso di lei.

Lei mi stava guardando, con un’espressione tra il divertito e l’interrogativo dipinta sul volto. La divertiva, forse, quella sensazione di sorpresa e di lieve disorientamento che mi aveva colto e che mi si leggeva in viso.

Indugiai brevemente con lo sguardo sul suo viso, tentando di dissimulare l’imbarazzo che sentivo come paralizzarmi. Non mi era capitato molte volte di incrociare lo sguardo con le ragazzine della mia età. Erano smorfiose, sempre in compagnia tra loro e, quando le si guardava negli occhi, distoglievano lo sguardo e prorompevano in quei risolini che mi facevano solo innervosire.

Era bella; anzi era bellissima e, come dire, diversa. Una bellezza strana, da donna più che da ragazzina, anche se era evidente che doveva avere non più di tredici o quattordici anni. Il viso era bruno e gli occhi nerissimi; i lineamenti regolari e la bocca disegnata delicatamente ma al tempo stesso carnosa e, come dire, sensuale. Si, sensuale, anche se allora non sapevo neppure cosa significasse, pur essendo io in grado di cogliere l’essenza, il significato e la seducente bellezza di quel concetto.

Ma erano i capelli a completare il quadro di quel viso da Gioconda, pulita e seducente, esotica e dolce. Erano di un colore strano, tra il fulvo e il rosso ed erano raccolti in una grossa treccia che, dalla spalla, le ricadeva sul petto non più acerbo.

Furono attimi lunghissimi quelli in cui indugiai ad incontrare i suoi occhi e poi ad accarezzare il suo viso, per tuffarmi ancora in quegli occhi scuri che sapevano d’antico e che esprimevano una bellezza a me sconosciuta.

Ero, mi sentivo, come annullato e la volontà non riusciva a comandare il mio corpo, immobile e inerte, al tempo stesso incerto se rimanere o se fuggire. Sospeso tra una pulsione alla ritirata frettolosa e l’indugiare ancora e cedere alla tentazione di un tentativo di conoscenza che mi attraeva e mi tentava.

Fu lei, come sempre accade, a rompere gli indugi e a rivolgermi un sorriso tendendomi una mano.

Mi fece cenno di avvicinarmi e di sedermi accanto a lei ed io risolsi in un attimo tutti i miei angosciosi dubbi e accettai, senza riserva alcuna, travolto dalla dolcezza spontanea di quell’invito.

 

Saranno state le tre del pomeriggio e il sole giocava con le nubi candide dei cieli di maggio. Come vedi, non posso rinunciare ad essere un poeta, perdonami. E’ che lo ricordo proprio così: tiepido, luminoso, un giorno strano e dolce, insomma, come capita di tanto in tanto.

Trovavo strano che nessuno dei ragazzi della banda che si riuniva quotidianamente nel praticello della quercia si fosse fatto vivo, ma forse avevano saputo prima di me dell’arrivo degli zingari e si tenevano prudentemente alla larga.

Parlammo per l’intero pomeriggio, io e lei e non chiedermi di cosa, perché non lo ricordo; o meglio, lo ricordo solo in parte. Cose ordinarie: che scuola frequentavo, come mi chiamavo, se mi piacevano gli animali, se conoscevo certi giochi, se temevo gli zingari, se mi piaceva cantare e ballare. Cose così, innocenti e senza importanza e tuttavia mai mi sono sentito tanto a mio agio, conversando con una ragazza, come in quella circostanza. Perché nei nostri scambi di conoscenze e di gusti, poco a poco ero riuscito ad entrare in quel suo mondo strano e diverso e persino a capire lo spirito che animava quella gente.

E poi era bella, troppo bella e quando mi rivolgeva la parola guardandomi negli occhi sentivo che il mio essere ne era dolcemente appagato, come accade soltanto nei momenti della vita in cui si verifica la singolare, stupenda magia che ti fa sentire in armonia totale con la persona che ti sta vicina. C’era insomma, s’era creato nei suoi confronti, una sorta di magnetismo che mi impediva di andarmene, di staccarmi da quel sedile scomodo, di allontanarmi. Quasi avessi il timore di perderla, di vivere cioè una sorta di incantesimo inverso e di vederla svanire per sempre, allo stesso modo in cui l’avevo trovata.

Non so se lei percepiva le stesse sensazioni, ma sta di fatto che sosteneva con interesse e con intensa partecipazione la nostra estemporanea conversazione. Ed era bello essere li, all’ombra della grande quercia, a due passi dall’accampamento da cui giungevano suoni di voci umane e strilli di bambini, ma al tempo stesso essere fuori dal tempo e dallo spazio, sospesi in una dimensione che mai, prima d’allora, avevo conosciuto.

 

Si fece sera. L’ombra della quercia s’allungò e i colori assunsero tonalità sature e dorate. Il sole doveva essere in procinto di immergersi oltre le colline di ponente e io avvertivo la sottile angoscia dell’imminente distacco salire lentamente. La sentivo salire dallo stomaco e fermarsi in gola e, per quanto deglutissi, la sentivo formare quel magone emotivo che prelude alla fine di un’esperienza che invece vorresti non finisse mai.

Ma fu ancora lei a stupirmi, perché ad un fischio prolungato e acuto che giungeva dall’accampamento, mi si rivolse fissando i suoi occhi nei miei e dicendomi, con la naturalezza che distingue gli inviti sinceri, se volevo cenare con loro.

Ti confesso che rimasi perplesso. Perché se già quell’incontro aveva suscitato nel mio animo emozioni che non sapevo descrivere, se già quel pomeriggio mi sembrava sempre più una sorta di sogno che poteva come tale infrangersi in un attimo, quell’invito andava oltre. Anzi, quell’invito, inatteso quanto improbabile era invece la riprova che era tutto vero. Che tutto stava accadendo veramente.

Non risposi subito e la guardai titubante e un po’ imbarazzato. E già nella mia mente andavano prendendo forma risposte del tipo “ma, veramente io ceno più tardi. Grazie comunque: come se avessi accettato” oppure “scusami, sai, sarei rimasto volentieri, ma mi aspettano a casa e poi devo ancora fare le lezioni per domani”. Ma mentre questo accadeva; mentre questi attimi eterni si stavano consumando e sentivo esplodere in me il conflitto tra un si istintivo e detto con il cuore e un “no, grazie” detto con la mente, fu lei a risolvere la situazione.

Con un balzo lieve scese dal sedile di pietra dell’ala del ponticello, mi prese per mano e mi invitò a seguirla. “vieni dai, non ti mangia nessuno” ricordo che mi disse, ma quel che ricordo fu, soprattutto, il sorriso con cui accompagnò quelle parole. Un sorriso cui non potevo, cui non volevo, cui non seppi resistere.

Fu così che mi ritrovai accoccolato su una stuoia, accanto a lei, al cospetto di un fuoco zingaro, che ardeva allegramente mentre la volta celeste imbruniva appena.

 

Non ricordo quanti fossimo attorno a quel fuoco, né cosa si disse, né chi mi rivolgesse la parola, se mai qualcuno me la rivolse. Ricordo soltanto l’atmosfera di libertà e di attesa al tempo stesso. Perché nessuno avrebbe osato profanare quella cerimonia, che era semplicemente la preparazione di un altro giorno vissuto senza legami, senza mete, con la sola missione di goderne la luce, le musiche, i profumi.

Sento di non esagerare se ti dico che, in quella speciale circostanza, anch’io mi sentii un po’ zingaro e mi ritrovai leggero e senza fardelli che gravassero sulla mia mente o sul mio cuore. Mi sentii figlio di una tribù, protetto dall’intera assemblea di uomini, donne e ragazzini che mi stavano intorno e che mi guardavano, divertiti, sbirciando la mia diversità e il mio malcelato imbarazzo. Perché accanto a me c’era lei, che mi aveva accolto come si accoglie qualcuno che si è lungamente cercato, con la naturale dolcezza che esprimeva una disarmante, struggente sincerità.

Sul fuoco giravano alcuni spiedi e, infilzati su questi, i corpicini di piccoli animali che non avrei saputo riconoscere. A turno ciascuno sfilò un frammento di quel rustico arrosto e fu proprio lei a farlo per me e a porgermi una piccola coscia. “Prendi e assaggia”, mi disse, “è porcospino. Senti che buono e come profuma”.

Ti confesso che quella fu la prima e ultima volta che mangiai carne di riccio e ti confesso pure che la trovai buona e che non fu la suggestione del momento. Lei mi disse che i piccoli cani che la carovana si portava al seguito avevano proprio questo compito: scovare i porcospini e … procurare la cena.

Se quel giorno doveva concludersi con qualcosa di memorabile, ebbene accadde. Perché quella fu una cena indimenticabile, come la musica che ne seguì e le risate e il chiasso festoso intorno a quel fuoco.

 

Quella notte non dormii.

Era come se nel mio animo ribollissero sentimenti che non conoscevo; come se prendessero corpo fantasie  che erano tanto inquietanti quanto affascinanti. Perché quello non era un sogno, ora ne ero certo e la domanda che mi si poneva nonostante tentassi in tutti i modi di ricacciarla negli angoli oscuri del subconscio era: che farai ora che l’hai conosciuta? E come farai a dimenticarla, a lasciarla andare e a fingere che non esita per il resto dei tuoi giorni?

Ma era soprattutto l’immagine di lei, di quei suoi occhi, di quella mano che afferrava la mia, che non mi dava tregua; ed era anche l’assillo di cosa stesse pensando lei, ora. Se fosse sveglia, se mi stesse pensando come io la pensavo e se anch’io fossi rimasto nei suoi occhi e nella sua mente.

Fu una delle notti più lunghe e travagliate della mia vita e il giorno dopo, a scuola, faticai non poco a non crollare addormentato sul banco. Ciò che mi teneva sveglio era soltanto il pensiero che di li a qualche ora avrei potuto rivederla e parlare di nuovo con lei e dirle tutto ciò che non avevo ancora potuto dirle e …

Mangiai in fretta, al ritorno da scuola e volai verso il ponte, con il cuore in mano.

Sul ponticello non c’era nessuno e quando lo raggiunsi vidi che i carri già si stavano muovendo.

L’accampamento era stato smantellato e il viaggio interminabile degli zingari riprendeva.

Il cuore mi sobbalzava in petto, ma non seppi fare altro che sedermi sull’ala del ponticello e attendere che la breve processione sfilasse davanti a me.

I ragazzini e le donne che tenevano le redini dei cavallucci sfiancati mi salutarono ed io rivolsi loro un sorriso. Poi sfilò il terzo carro e la vidi. Se ne stava seduta dietro, con le gambe a penzoloni, quasi volesse essere l’ultima a lasciare quel luogo.

Aveva i capelli sciolti, di un rosso che non so descrivere e mi sembrava ancora più bella.

Scesi dal mio sedile e stetti così, in piedi, a guardarla.

Lei mi fece un cenno con la mano e mi rivolse un sorriso che mi sembrò di rassegnato, fatale commiato. Un sorriso che diceva “lo ha voluto il destino che ti incontrassi e non ti dimenticherò”. Rimanemmo a guardarci per qualche minuto, finché i carri non svoltarono verso il borgo. Perché non ebbi il coraggio di seguirli e avevo solo voglia di piangere.

Non l’ho più rivista e quello rimane l’amore più bello della mia vita. L’amore più pulito, il più sincero, il più vero, il più spontaneo; insomma, un amore perfetto.

 

Ecco ragazza mia, tuo nonno ti ha svelato un frammento segreto della sua vita che non ha mai condiviso con nessuno. E l’ha fatto per farti capire che l’amore, quello vero, giunge in punta di piedi quando meno te lo aspetti e non ti lascia più.

Se quel giovinetto ti ama davvero, si farà vivo, credimi. Tu non cercarlo e non piangere.

Se non lo farà, significa semplicemente che non ti merita.

 

” Ecco ragazza mia, tuo nonno ti ha svelato un segreto della sua vita che non ha mai condiviso con nessuno. E l’ha fatto per farti capire che l’amore, quello vero, non finisce mai e si rinnova ogni volta trovando un appiglio antico. Sai, tua nonna aveva una vaga sfumatura di rosso nei suoi capelli…. ”