Il Tenore del Popolo

Il Tenore del Popolo

Racconto di Michele Zanetti

 

In certi giorni della primavera, quando il sole supera le due solide barriere degli argini, le acque della bassa Livenza sono limpide al punto da potersi quasi scorgere il fondo. “Acque pulite, acque da anguille”, diceva sempre il vecchio Simone Baldissin. E in effetti lui, pescatore di professione di Torre di Mosto, con le guizzanti anguille d’argento della Livenza aveva mantenuto la famiglia e allevato i figli; non solo, ma aveva portato con sé a imparare il mestiere impegnativo del pescatore di fiume anche Francesco, il maggiore dei quattro, che ormai aveva diciotto anni.

E Francesco l’aveva presa bene e aveva affrontato la dura iniziazione al lavoro quotidiano sulle acque del fiume, se non con proprio entusiasmo, con buona volontà e spirito di sacrificio.

Certo, c’erano i giorni difficili: quelli delle dita bagnate dall’acqua gelida di febbraio e gelate dal soffio della Bora, che s’incanalava tra gli argini, spazzando le anse rivolte a est e increspando le acque fino a inzuppare gli stessi pescatori. Ma c’erano anche i giorni di autentico trionfo: quando nella tarda estate le anguille sciamavano a milioni nelle acque smeraldo e, nel tentativo di raggiungere il mare, riempivano i bertovelli di corpi grassi, guizzanti e viscidi, che poi finivano nelle capienti tinozze della barca di Simone e quindi al mercato ittico di Caorle.

Il rapporto tra il giovane e il fiume, nato e cresciuto con lo stesso Francesco, che nelle sue acque aveva imparato a nuotare sin da bambino, s’era dunque assestato con lo sfumare della sua adolescenza, fino a raggiungere quella stabilità che sembrava doversi perpetuare per il resto della sua vita.

 

C’era tuttavia una cosa che turbava la vocazione ereditaria del giovane pescatore. Una cosa che aveva creato persino qualche conflitto in famiglia, proprio in ragione del fatto che i genitori di Francesco le attribuivano una importanza del tutto differente.

Accadeva, infatti, che Francesco fosse dotato di un timbro di voce del tutto speciale e che le sue frequenti esibizioni canore esprimessero un evidente e inconfondibile livello tenorile.

Proprio così: Francesco era un tenore nato, dotato come tale di capacità canore che facevano vibrare i vetri e venir la pelle d’oca dall’emozione, in chi lo ascoltava.

Questo la madre Lisetta, l’aveva compreso fin da quando il mutare della voce del ragazzo in quella del giovane uomo, non si era rivelato, proprio grazie alla sua innata passione per il canto. Più di qualcuno, poi, avendolo ascoltato nelle sue estemporanee esibizioni, in chiesa o tra gli amici dell’osteria, la domenica, non aveva avvicinato i genitori per suggerire, con la dovuta discrezione, l’opportunità di farlo studiare.

Già, farlo studiare; ma dove e a chi rivolgersi. E poi, che mestiere era mai quello del cantante d’opera, che se non vieni spinto dalle raccomandazioni, dai “calci nel culo”, come diceva grossolanamente il padre, non vai da nessuna parte e magari ti ritrovi a cinquant’anni senza un soldo in tasca e senza un mestiere. Meglio il pescatore, meglio le anguille, che le scarpe e i calzoni che il giovane indossava non glieli aveva regalati la Divina provvidenza, ma li aveva comprati lui e grazie alle tinche dorate e alle anguille d’argento della Livenza di Torre e di Biverone.

Il conflitto in famiglia, comunque, non era destinato ad assumere toni esacerbati; e questo, sia per il carattere mite e sottomesso della Lisetta, che per quello burbero ma bonario di Simone. Così, alla fine, proprio per l’amore che Simone nutriva per lei, pur senza ostentarlo e grazie alle crescenti pressioni dello stesso parroco, si addivenne ad un compromesso: Francesco sarebbe andato a scuola di canto lirico a Venezia da tale maestro Alvise Loredan, di Cannaregio.

Ci sarebbe andato una sola volta la settimana, però, di mercoledì e per sei mesi di prova, ché ogni lezione costava due tinozze di anguille se non di più.

 

Francesco mise dunque piede a Venezia, con la timidezza e la soggezione che è propria dei giovani di provincia, che non hanno mai visto tanta bellezza galleggiare sull’acqua, se non in cartolina.

Mise piede a Venezia e si perse tra calli e campielli, giungendo alla prima lezione in ritardo e dovendo subire i severi rimproveri del maestro. Quest’ultimo, però, non tardò a rendersi conto che il timbro di voce del giovane era davvero straordinario; non solo, ma che la sua totale assenza di cultura in fatto di tecnica del canto, di pause, di acuti, di bassi e quant’altro, ne faceva una materia vergine da plasmare a suo piacimento. Una materia che avrebbe potuto garantire a lui e al suo giovane allievo, soddisfazioni e palcoscenici di livello almeno nazionale.

Cominciò così l’avventura veneziana di Francesco, con scale e gorgheggi ripetuti all’infinito e con qualche capannello di curiosi che non di rado si raccoglieva nella calle verso cui si affacciava la finestra dello studio del maestro, quando il giovane provava. Un’avventura che ben presto egli intuì essere lunga e per certi versi estenuante, perché furono chiare fin da subito le parole del maestro Alvise: “La ribalta internazionale bisogna guadagnarsela con sudore e sangue, con sangue e sudore, caro il mio giovine”.

A quale sangue si riferisse, il giovane non lo comprese mai e anzi si stupiva e rideva tra sé quando, giunto l’autunno, lo stesso Alvise lo congedava raccomandandogli di un prendere freddo e umidità, di coprirsi bene la gola e di non uscire per nessuna ragione di casa quando c’era la nebbia.

Rideva, certo, perché il mattino dopo, con qualsiasi tempo, egli era in barca e vogava alla vallesana per vincere la corrente della Livenza e ispezionare i bertovelli a monte.

 

I sei mesi pattuiti in casa trascorsero comunque in fretta e il momento della grande decisione giunse prima di quanto lui stesso si aspettasse.

Nel frattempo egli aveva fatto buoni progressi nell’impostazione della voce e i primi risultati cominciavano a palesarsi; e tuttavia, pur essendo ancora lontano dagli obbiettivi che il maestro aveva preconizzato, una decisione andava presa e senza troppi tentennamenti.

Fu così che Francesco decise di abbandonare la carriera di tenore, dovendo lui stesso convincere la Lisetta che la pesca nel fiume avrebbe potuto garantirgli un futuro più sicuro del bel canto.

Qualcuno in paese giunse a mormorare che un ruolo decisivo in quella scelta l’ebbero i due occhi azzurri della Manuela, la figlia del fornaio, che nel frattempo Francesco aveva cominciato a frequentare con assiduità assai maggiore delle lezioni di canto; ma erano soltanto illazioni.

La stessa Lisetta, del resto, si rassegnò non senza aver versato qualche lacrima, al punto che il giovane dovette rassicurarla sul fatto che lui, comunque, avrebbe continuato a cantare, anche senza palcoscenico, anche senza pubblico, anche senza maestro. Cosa, quest’ultima, che in realtà non accadde; semplicemente perché, quando Francesco cantava durante il lavoro di levata dei bertovelli e di raccolta del pescato, sull’argine di Torre di Mosto una piccola folla di nonne, mamme e ragazze, si raccoglieva per ascoltarlo. E gli applausi fioccavano, con le grida di entusiasmo, quando egli intonava il “Nessun dorma”, che si concludeva con un trionfante “vincerò”.

Fu così che Francesco, pur non essendo mai diventato un tenore dell’Arena di Verona, divenne un tenore del Popolo; del Popolo di Torre di Mosto, o meglio un tenore della sua Livenza. E chissà cosa avranno pensato le anguille, i cui guizzi nell’oscurità smeraldo delle acque del fiume, erano accompagnati dalle note delle romanze più famose.

 

Tutto questo accadeva verso la metà del Novecento, mentre ora il fiume è muto e deserto delle anguille d’argento e dei pescatori che le insidiavano. Quasi che la storia vera che abbiamo raccontato sia stata soltanto una favola d’altri tempi. Tempi di radiosi miraggi di futuro, di acque limpide e fertili, di tinche, di lucci e di anguille: tantissime anguille.

Maggio

(Opera prima classificata al concorso letterario dell’Oratorio di San Donà di Piave “Un racconto per settembre”) SETTEMBRE 2000

Certi nomi sono difficili da portare. Di solito avviene che il nome strano lo si affibia ad un bimbetto, che se lo porta con inconsapevole, disinvolta allegria, ma poi con il tempo si avverte l’incongruenza, che fa stridere il suo significato e mette in evidenza difformità profonde tra il carattere, l’aspetto ed i comportamenti dell’uomo ed appunto il significato del suo nome.

Così era successo a Maggio, ultimo di quattro fratelli, cui era morta la madre, come spesso avveniva tra i poveri dei suoi tempi, nel momento stesso della nascita. Da subito s’era rivelato un bambino taciturno, poco propenso al sorriso ed al gioco in compagnia, anche se tranquillo e sorprendentemente generoso.

Era cresciuto, del resto presso una zia materna, essendosi il padre risposato con un’altra donna che già aveva un figlio. Non che fosse stato rifiutato dalla matrigna, anzi: è piuttosto che proprio non ce n’era per tutti ed il sacrificio maggiore era stato chiesto proprio a lui, al più piccolo.

Tra i braccianti e i diseredati, che faticavano con la zappa in mano per dieci ore al giorno per avere appena di che vestirsi e sfamarsi, non erano in uso, in quegli anni, forme di assistenza all’infanzia: non si sapeva cosa fossero gli psicologi che interrogano i bambini per scoprire i loro segreti disagi e porvi rimedio.

Così Maggio crebbe portando nel proprio animo il dolore della separazione dai fratelli e quello, ancor più lacerante, di non avere una madre da cui essere rimproverato, premiato e tra le cui braccia rifugiarsi nei momenti di sconforto. Il suo carattere di ribelle andò dunque formandosi poco a poco, nella rarefatta vacuità di affetti troppo lontani, nell’assenza di amici veri, nella cupa incertezza per un futuro di uomo che prometteva soltanto tribolazioni, rinunce e dura disciplina ad idee che non condivideva.

Nei vent’anni della sua vita di bambino silenzioso, di adolescente solitario e di giovane inquieto, il Fascismo aveva afferrato le redini della Nazione ed era cresciuto sino a divenire per molti una fede, assoluta e violenta. A questa stessa, infine, il giovane Maggio, dalle mani callose di badilante, s’era ribellato con forza e determinazione.

Contro tutto questo egli rivendicava il diritto di costruirsi un futuro libero da parole d’ordine, da servilismi, da miserie morali, da pesantissimi silenzi imposti. Con l’incoscienza ed il coraggio che soltanto i vent’anni e l’assenza di esperienze di vita impongono, non aveva neanche cercato conforto in altre ideologie o in diversi credo: egli era solo e per questo considerato con sospetto ancora maggiore.

Al termine del primo mese di leva, nell’aprile del 1940, l’avevano assegnato ad un battaglione punitivo e caricato con migliaia di altri sventurati, su una lentissima tradotta diretta verso est. Della Russia Maggio sapeva soltanto ciò che si leggeva sul sussidiario di terza elementare, imbevuto di  ridicola retorica di regime e di povere illustrazioni militaresche.

Eppure quel nome lo affascinava: Russia, pianura, steppa, spazi sconfinati, cieli vastissimi, vento, inverni gelidi, slitte, cavalli al galoppo, pascoli verdissimi, gente come lui, contadini, poveri, guerra. A loro andava a far la guerra Maggio: a contadini poveri, cui la sconfitta avrebbe imposto nuovi padroni e le spesse patate, lo stesso pane di segala, gli stessi cavoli di sempre, con appena qualche sofferenza in più.

Forse proprio lì, tuttavia, avrebbe trovato chi lo capiva, qualcuno insomma disposto a parlare il suo linguaggio, ad ascoltare e comprendere i suoi silenzi, a leggere in fondo ai suoi occhi grigi, colmi di solitudine e di generosità.

La prima cartolina era giunta da un luogo sconosciuto e lontano, soltanto un mese dopo. Salutava tutti, diceva poche cose laconiche: di trovarsi bene, delle numerose zanzare e di tante betulle, come non ne aveva mai viste. Era maggio quando la scrisse e nessuno in famiglia se l’aspettava, dato il suo carattere e la sua scarsa propensione alle relazioni sociali, ancorché formali e di rito. Grande fu pertanto lo stupore quando ad essa ne seguirono altre, con sorprendente regolarità, a cadenza quindicinale: tutte vergate con quella sua grafia incerta, eppure fresche, leggere, quasi venate da un soffio lieve ed autentico di semplice poesia.

La censura militare, ferrea quanto pretestuosa, gli impediva di parlare dei luoghi e della gente, ma egli lo faceva indirettamente, descrivendo col suo stile essenziale, le atmosfere, i colori, la vastità di un mondo che certo lo affascinava, ma che lo faceva anche soffrire, nella deriva senza speranza di un oceano di nostalgia. Raccontava, Maggio, di un fiume tranquillo come il Po, ma più grande e più chiaro, assediato da boschi di pioppo dalle foglie tremolanti ed increspato da aliti di vento che giungevano di lontano recando profumi sconosciuti.

Raccontava di campi di grano che dilagavano verso orizzonti senza confini, grandi come il mare e come questo percorsi da gigantesche onde, che incurvavano i profili del suolo; ed ancora di boschi fitti di betulle dal tronco candido, così uguali e così silenziosi che ci si poteva perdere. Raccontava di cieli di stelle tanto uguali alle nostre da non riuscire a distinguerle, ma brillanti come i cristalli di brina al primo scroscio di sole. Della guerra, dell’avventura sciagurata che stava vivendo, delle atroci sofferenze che provava e che provocava, non c’era nulla nelle sue parole: non un cenno, non un indizio, nulla.

Trascorsero così i mesi delle messi e delle trincee, dell’attesa e delle foglie gialle. Le betulle divennero d’oro, i pioppi si tinsero d’ocra lungo il grande fiume silenzioso e le sue acque si fecero bionde di limo e turbinose. Vennero le piogge interminabile, le nebbie grevi e le nostalgie insopportabili, le brinate ed i geli di un inverno sconosciuto e feroce, che si affacciava sulla scena di una guerra non ancora combattuta come un protagonista crudele e inatteso. Poi cadde la neve: ne cadde tanta, come Maggio non ne aveva mai vista; tanta da trasfigurare il paesaggio, annullando nel candore velato d’azzurro le onde della steppa ed i boschi di betulla, le trincee e le speranze di tornare.

Egli scriveva nelle cartoline verdi, con il francobollo stampato ed il timbro della censura militare, che sognava talvolta la Clara: quella ragazza del paese vicino con cui aveva ballato una volta sola; ma più spesso lo sfalcio dell’erba medica, nella guazza del primo mattino, ed il profumo della polenta abbrustolita e tante altre cose che gli mancavano. Dei cannoni, il cui rombo udiva avvicinarsi con l’inesorabile lentezza degli eventi fatali, attraverso le vastità senza dimensioni di un orizzonte sconosciuto, non scrisse mai.

Fu verso la metà di dicembre che i Cosacchi attaccarono, ma questo lo si seppe soltanto molto tempo dopo. Essi apparvero all’orizzonte materializzandosi dal nulla, lanciati ad un galoppo sfrenato e suicida e le loro grida sembravano cori esultanti e lontani, che il tambureggiare di mille zoccoli ritmava quasi festosamente. Poi cominciò il crepitìo delle mitragliatrici e cavalli e cavalieri si trasformarono presto in grottesche statue cristallizzate dal gelo. Questo successe il primo giorno in cui la guerra incontrò Maggio e gli parlò del suo destino e da quel giorno Maggio non scrisse più.

Le cronache belliche, al solito prodighe di particolari terribili e angoscianti, descrissero con dovizia ciò che avvenne dappresso: della rotta, dell’accerchiamento, della disfatta, del sudario di neve che tanti giovani avvolse senz’alcuna pietà, in quelle vastità vuote dove la solitudine non concede speranza. Di Maggio, tuttavia, non si seppe più nulla: egli era stato inghiottito dall’orco dell’inverno in quella terra sconosciuta, dove il grano matura a luglio e le betulle sembrano confabulare sommesse ad ogni alito di vento primaverile. Né ottennero alcun risultato le ricerche di quanti lo amavano ed inseguirono per anni la speranza di ritrovarlo, bussando a cento porte, con il cappello in una mano e la foto di un giovane serio, dai lineamenti fini nell’altra.

Io non l’ho mai conosciuto, ma in casa si parlava spesso di lui quand’ero bambino e me lo figuravo, guardando la foto ritoccata sul comò della nonna, come uno zio ragazzo, un po’ taciturno, ma buono e generoso, come sa essere soltanto chi ha sofferto tanto. Si chiamava Maggio e solo questo nome insolito, solare e profumato come i prati primaverili, me lo faceva amare.

Sono passati molti anni e molti hanno dimenticato; altri, che son venuti dopo, addirittura non hanno mai saputo e non sapranno mai. In fondo è normale che sia così: come farebbe altrimenti la storia ad indurre gli uomini nei tragici errori dei padri? Questi tuttavia sono discorsi diversi e troppo difficili. Quanto a me, io non dimentico; soprattutto non lo dimentico e quando sento il poeta cantare: “Dormi sepolto in un campo di grano, non hai la rosa non hai il tulipano che ti fan veglia dall’alto dei fossi, ma solo mille papaveri rossi”, penso in cuor mio che sia stata scritta proprio per lui, per il giovane Maggio che avrei tanto voluto conoscere.

 

 

Caro capitano

Quando sono giunto al paese aggrappato al versante sud della collina e assediato dal bosco, il sole aveva da poco scavalcato le gobbe fossili dei colli di levante. Dopo le tortuose anse della stradina, tra forre umide e buie, alle soglie dell’abitato la luce radente che incendiava il rosso fiamma delle foglie di ciliegio mi è scrosciata addosso improvvisa. Da poco le sue onde s’infrangevano limpide sulla facciata bianca della chiesa e sul campanile di sasso facendoli rifulgere nella mattina d’autunno; e si capiva come tutto questo avvenisse perché la loro immagine di pace potesse riflettere quella luce il più possibile lontano, verso sud, tra gli uomini della pianura.

Era la prima volta che visitavo questo luogo e che salivo la gradinata monumentale per affacciarmi al recinto sacro che guarda gli orizzonti di pianura del Friuli. Era la prima volta che potevo ammirare il solco grigio del grande fiume che scorre lontano, verso est, brillante come una lama d’argento vivo; e le brume azzurre della pianura in cui s’immergono pavide le prime, basse colline, come branchi di mitici e villosi animali dormienti.

Era la prima volta che incontravo questo paese cui hanno rubato l’anima con gli intonaci freddi e impersonali, con le persiane tetre, con le assurde architetture in cemento e allumino anodizzato che, volendo essere ricostruzione, hanno portato alle conseguenze estreme le distruzioni del terremoto del Novecentosettantasei.

Per questo forse, ma forse non solo per questo, ho visitato il cimitero che s’adagia all’ombra della massiccia torre campanaria. L’ho fatto soprattutto perché ero convinto di ritrovarla li l’anima vera della gente di questo luogo: sepolta, commemorata, celebrata nelle epigrafi del dolore e degli affetti popolari, ritratta nei cammei in bianco e nero di un passato non lontano.

Devo dirti, caro Capitano, che il momento era pervaso da una sottile magia ed era solitario, come lo sono le mattine d’autunno in cui il sole accarezza la collina per esaltarne i colori. Quando i fringuelli si muovono a frotte, con voli brevi, lanciando richiami da un albero all’altro per non perdere il contatto con lo stormo che migra.

A quell’ora, che per il passato contadino di questa gente sarebbe stata già tarda, ma che ora s’avvertiva pigra e quasi languida, non c’era nessuno sulla scalinata monumentale; nessuno osservava l’orizzonte dal recinto sacro della chiesa affacciata a lontane distese alluvionali; nessuno percorreva i vialetti di ghiaia fine del cimitero, nessuno indugiava a parlare sottovoce con i morti.

Sembrava un giorno sorto senza che gli uomini se ne accorgessero, così, solo per far pensare i pochi tra loro che s’erano destati, per farli meditare e condurli attraverso quei sentieri della memoria e della nostalgia cui più non sono avvezzi o forse che non amano più percorrere.

Sono entrato nel cimitero in silenzio, come un ospite che deve farsi accettare, con deferenza e ho incontrato subito il Cagnasc. Giovanni Cescutti, nato il sei di luglio del 1846 e detto “Cagnaccio”, se ne stava li, aggrappato al muro di cinta a guardare la collina alle spalle del borgo, divenuta selvosa. Se ne stava li quieto, con la sua faccia da brigante stanco e la sua barba candida e incolta, con il suo cappellaccio da pastore e con gli occhi smarriti nel tempo dei suoi anni migliori e nelle vicende alterne del suo passaggio terreno. Non era cattivo Cagnasc, lo si capisce dallo sguardo; era soltanto un po’ selvatico, forse, come tutti quelli cui l’esistenza ha dato poco e che hanno espiato per la vita intera le colpe d’altri, con la fatica. Poteva essere tuo nonno, Capitano, perché era morto quattro anni dopo la tua nascita e doveva essere forte e tenace, perché s’era arrampicato sulle balze della vita fino alla bella età di settantacinque anni.

Poi via via ho scoperto gli altri: uomini e donne, tutti allineati lungo lo stesso muro, insieme come a far conciliabolo, a vegliare i discendenti, a commentare le vicende dei vivi fino ad accoglierli infine tra loro, serenamente. Loro, i custodi dell’anima di questo paese, se ne stavano appartati ma non del tutto dimenticati; piuttosto sopportati e lasciati a sorreggere un muro forse troppo vecchio, ma non ancora cadente. Un muro su cui gli architetti del Giubileo non avevano potuto o voluto mettere le mani e calare i picconi per sostituire al sasso eterno le strutture effimere del cemento armato. Forse per non commettere l’ultimo sacrilegio al cospetto di una comunità che si sta lentamente estinguendo.

E’ stato soltanto dopo, uscendo dal cancello di ferro scuro che ho incontrato te; ed è stata la tua stella rossa a rivelarti. La stessa in cui credevi come in un simbolo di liberazione dell’uomo e che ti ha fatto confinare all’esterno del recinto sacro in cui sono rifugiati coloro che credevano nella croce come simbolo di riscatto da un immaginario peccato originale.

Caro Capitano Daniil, è stato bello scoprire che ci sei anche tu; che sei alle spalle di Cagnasc e che guardi la pianura lontana e perennemente avvolta nei veli perlacei del controluce e delle brume.

E’ stato bello conoscere il tuo volto di giovane russo, dall’espressione un po’ corrucciata e seria, come chi è convinto di dover compiere la missione eroica di salvare il mondo, ma ha l’impressione di non esserci riuscito.

E’ stato bello scoprire che hai fatto dono a tutti noi dei tuoi ventisette anni, come l’avresti fatto per la tua gente, ma è anche triste constatare che ti abbiamo ripagato negandoti il recinto sacro riservato ai credenti.

Eppure anche tu credevi nel riscatto dell’uomo e per questo hai dato la vita: che differenza c’era? La pietà che la nostra religione invoca non era forse sufficiente a ripagarti di tanto sacrificio? Pare proprio di no ed è per questo che ho sostato accanto a te, in silenzio, per un frammento di quella mattina di sole e di luce d’autunno: per farti compagnia; per farmi perdonare, per chiederti di non avercela con noi. La morte rende tutti uguali: il grande notaio, l’alto magistrato e l’umile servo-pastore sono soltanto anime solitarie e indistinguibili nell’altra vita, questo lo sappiamo bene. La sola differenza fra il tuo credo e il nostro è che tu volevi l’uguaglianza in questa vita; noi, invece, siamo stati convinti che ci verrà dispensata soltanto nell’altra e che l’ingiustizia si riscatta soltanto dopo la morte.

Caro Capitano della Cavalleria Sovietica, che avresti l’età di mio padre, mi è bastato poco per sentirti amico, per sentire che molto abbiamo in comune. Certo, abbiamo, perché anche se sono nato tre anni dopo la tua morte, tu continui a vivere e a diffondere il tuo messaggio, la forza e l’orgoglio della tua stella rossa, con la dignità e il coraggio di chi accetta di morire per le idee cui s’è donato. Questa è fiducia nell’uomo e nasce dalla certezza che qualcuno raccoglierà il messaggio che ciascuno di noi lascia, nel momento in cui varca il recinto sacro e viene appeso al muro o incorniciato da una lapide di marmo.

Sostando accanto a te ho restituito colore ai tuoi sogni ed ho pensato alle pianure ondulate che sconfinano oltre gli orizzonti visibili; ho pensato ai fiumi pigri e imponenti e ai boschi di betulle d’argento attraverso cui pensavi un giorno di cavalcare in pace. Non temere, Capitano, non ti dimenticheremo e l’averti deposto all’esterno del muro, in compagnia della tua stella rossa è stato semplicemente frutto di un atto di delicata pietà. E’ stato perché tu potessi spingere lo sguardo oltre la collina e guardare la pianura azzurra; perché tu potessi sognare la steppa dorata e i suoi cieli illuminati da nuvole immense. Perché potessi continuare a cavalcare con i tuoi compagni, al galoppo e guidare la carica con la sciabola sguainata, come un eroe, per sconfiggere la morte e conquistare l’immortalità nei nostri cuori.

E quando la sera le altre anime si siedono sul muro di cinta del cimitero confabulando e bisbigliando assorte dei destini di questo luogo, avvicinati a loro senza timore; loro non avranno paura della tua uniforme e della tua stella rossa e ti accoglieranno come un figlio, come un fratello, come un friulano che, semplicemente, parla un dialetto strano, di un’altra frontiera.

Loro, i morti del popolo dall’animo semplice e dai sentimenti sinceri, ti faranno sentire a casa.

Grazie Capitano.

La casa navigante

Le piaceva tanto dormire in barca. Le piaceva perché dentro quel corpo buio di balena, dentro il ventre di quello strano animale di legno che a volte sembrava vivo, nelle notti quiete, si percepivano odori familiari, si sentiva il respiro del fiume e il sonno delle barche e il russare tranquillo di suo padre.

Lei, Amalia, viveva con i nonni, nella casetta di via del Pass; nella casupola vecchia, con le imposte verdi e scrostate dall’umidità, con l’orticello ordinato e tirato a lustro più della cucina e con il cortiletto verso il levar del sole intasato di cordame e tavole e pale e rotoli di vecchie vele dai colori stinti. Quella casetta che, si capiva, avrebbe voluto affacciarsi al fiume e che ora invece guardava dappresso quello strano muro d’erba che le chiudeva l’orizzonte del calar del sole come una frontiera che esclude, che lascia fuori. A stento, dalla finestra della cameretta del primo piano, che divideva con il fratellino Tommaso, riusciva a intuire l’altra realtà, quella oltre l’argine, della golena, quella del porto sul fiume. Scorgeva gli alberi dei burci ondeggiare al battito delle onde d’abbrivio e ne sentiva la musica di voci umane e di grida, i rumori degli attrezzi e il suono delle corde che tintinnavano al soffiare del vento di bora su misteriosi oggetti metallici.

Lei amava quel mondo di uomini affaccendati e di barche pigre e dormienti, perché era una frontiera, un luogo da cui si parte verso mete sconosciute e lontane, scivolando sull’acqua, lentamente, dolcemente, come fanno i sogni.

 

Amaliaaaa!! Vientu casa???” Le gridava la nonna quando faceva buio “Dai picoea, vien casa, che l’è da pareciàr la toea e to pare stasera nol riva….dai bea, dai!!

Lei allora volgeva ancora uno sguardo alle ombre azzurre che di adagiavano sulle acque e avvolgevano il fiume e gli alberi della sponda opposta e poi scendeva la scaletta ripida e affondata nel versante erboso dell’argine. Anche quel giorno era trascorso e l’indomani sarebbe stato uguale: ancora una volta, seduta sull’erba di quel balcone sospeso, avrebbe osservato l’ansa del Piave che piegava decisa verso San Donà e il bosco di pioppi ciarlieri aggrappato alla riva opposta e le sinuosità dell’alveo che salivano, a monte, verso gli squeri dell’America di Fossalta, dove si fabbricavano i burci.

Per lei quello era un orizzonte domestico, ma anche un pianeta, un universo intero, che ogni giorno sembrava mostrarsi nuovo, ricco di eventi e del tramestio d’uomini, di bestie e di materiali, di colori e di suoni. Quello, del resto, era il solo modo che aveva di viaggiare accanto a suo padre e sua madre: con l’immaginazione e con i sogni, aspettando che dall’ansa di mezzogiorno comparisse la sagoma bonaria e forte, placida e robusta del suo burcio, di ritorno da lontano. E quando i due alberi andavano allineandosi alla grande curva per prendere la direzione del porto, allora le spuntavano le ali e si precipitava giù dal sentiero ripido dell’argine, per correre incontro al gigante mite che scivolava lentamente sulle acque verderame.

Il primo a vederla, in quelle occasioni, era sempre Temistocle, il vecchio cavallante. Reggendo la cavezza di Julio, il baio dalle zampe robuste e dal collo possente, il vecchio Temi l’apostrofava di lontano gridandole “…Maliaaaa, semo drio rivàr!!!!!…. Rivemo Maliaaaa!!!!” e mentre la salutava con la voce agitava il braccio e rideva di gusto ostentando le numerose fallanze della sua dentatura e un sorriso assediato da rughe profonde come gli anni che le avevano scavate.

Anche Flik, il bastardino nero con le calze bianche si accorgeva di lei non appena ella si lanciava di corsa attraverso lo spiazzo del porto. E allora cominciava ad abbaiare eccitatissimo, girando su se stesso sulla plancia di prua come fosse spiritato, con il rischio di scivolare nell’acqua.

 

Di solito però la vacanza vissuta con i suoi genitori, com’ella considerava i giorni trascorsi insieme, durava poco. Appena il tempo di scaricare, di assistere al lavoro delle file d’uomini che salivano con la carriola lungo la pesante tavola che fungeva da passerella, di osservare il loro lavoro faticoso, magari ridendo alle loro imprecazioni o alle loro battute scherzose standosene seduta sul bordo della plancia, con i piedi a penzoloni sul fiume. Poi le pulizie, il carico delle provviste, gli abbracci, le raccomandazioni, le promesse di regali e favole, di racconti per la volta prossima e infine le lacrime, con la solitudine tornava padrona del suo animo.

Quanto avrebbe voluto partire, andare alla scoperta di tutto ciò che si nascondeva oltre gli orizzonti del porto seguendo quella grande strada d’acqua, così rassicurante e generosa di promesse e lunga, lunga forse fino all’infinito.

E invece lei rimaneva sempre lì, per guardare Tommaso, aiutargli a fare i compiti, aiutare la nonna a cucinare, prelevare le uova dal pollaio, passare la scopa sui pavimenti, riassettare i letti, stendere la biancheria lavata aiutandosi con una vecchia cassetta, ché altrimenti non arrivava al filo. Tante cose che le lasciavano soltanto i segreti e rari momenti di vuoto in cui fuggiva con sé stessa per rifugiarsi alla sommità dell’argine.

Anche il nonno, del resto, era sempre indaffarato e non era mai in casa. Con qualsiasi tempo, pioggia o canicola che fosse, lui usciva in cortile o scendeva al porto, oppure si rifugiava di nascosto nelle osterie fumose che si affacciavano sulla via d’accesso al fiume. Forse lo faceva per sottrarsi alle lamentele continue della nonna, alla sua lagna instancabile, che lo tediava senza tregua non appena si affacciava all’uscio, come le mosche d’estate.

Lei però non voleva male al nonno, anzi, le piaceva quando lui sorrideva o scherzava perché in quei momenti le sembrava di scorgere nelle espressioni del suo viso quelle di suo padre: come se d’improvviso lui fosse invecchiato. E le piaceva soprattutto quando la portava con sé a cercare i viticci del luppolo, per fare i risotti; quando partivano con la borsa vecchia di rafia e andavano lungo le sponde del fiume, verso Romanziol, a frugare nelle siepi di rovo e nei boschi di robinia.

Le piaceva perché rimanevano finalmente loro due soli e camminavano fianco a fianco e anche se lui parlava poco lei si sentiva bene, in pace col mondo, felice di stare con un uomo che le ispirava la stessa pacifica forza del fiume, la stessa saggezza, la stessa ricchezza.

 

Sognava Amalia; sognava e soffriva in silenzio di una sottile nostalgia per i suoi affetti più cari, desiderando di partire un giorno accanto a loro e di perdersi lungo le anse che solcano gli orizzonti piatti verso mare, per scoprire il mondo, come zingari del fiume.

La scuola del resto, era già finita per lei; aveva ormai dodici anni suonati e la quinta elementare s’era conclusa con gli esami che l’avevano promossa già nel giugno dell’anno prima. Ora non poteva più andarci sui banchi di legno scuro, perché loro, i Zorzetto non erano gente di quella che può studiare, che ha soldi per libri, quaderni e gomme da cancellare e carte assorbenti e pennini e cartelle. Loro erano gente di fiume, di quella che lavora e che deve arrangiarsi giorno per giorno.

Della scuola però le era rimasto un ricordo, segreto e dolcissimo, incancellabile: l’abbraccio e gli occhi lucidi della sua maestra, che le aveva raccomandato di continuare a leggere e scrivere per non perdere l’esercizio, perché lei era brava e un giorno avrebbe potuto insegnare anche ai suoi. In quell’occasione la maestra le aveva regalato un quadernetto con la copertina nera, con le righe fitte e il bordo delle pagine rosso scuro e le aveva anche dato un bacio.

Quel quadernetto era l’oggetto più prezioso che le fosse mai stato donato e lo custodiva gelosamente sotto il letto, sul fondo della sua cassetta-baule, tra la biancheria pulita e i fiori di lavanda che raccoglieva in giardino. Un giorno, un giorno veramente speciale, l’avrebbe portato con sé e avrebbe riempito quelle belle pagine bianche divise da righe sottili con i segni che materializzano sulla carta i pensieri. Certo non sospettava neppure la bella Amalia, la bambina gracile dai capelli lunghi e lucenti, quell’esile essere umano con le gambe lunghe e scarne che somigliavano vagamente a quelle di una cicogna, che il tempo del quadernetto sarebbero giunti così presto.

Anche per questo, forse, la sua gioia all’annuncio della partenza imminente, esplose incontenibile e parve dilagare nello spazio brullo del porto come una marea di fresco e travolgente entusiasmo, di allegria e di felicità pure, di cui nessuno peraltro si sforzò di comprendere il motivo.

Il solo a piangere inconsolabile in quell’occasione fu Tommaso, cui dovettero essere fatte molte promesse e che alla fine si convinse che ciò che veniva concesso alla sorella sarebbe toccato a lui di li a poco e in misura assai maggiore, come si conveniva per un maschio.

 

Partirono ch’era ancora buio perché la marea era calante e l’acqua scivolava più veloce verso il mare. Partirono alla metà di maggio, con la luna piena e la destinazione aveva un nome misterioso e affascinante, da antica città, da porto delle meraviglie, da luogo lontano e prigioniero della storia: Sermide. Era il 1937.

Un anno strano e inquietante quello, un anno di tempeste lontane di cui si sentiva il rombo minaccioso e talvolta incombente al punto da turbare i sonni del nonno, perché lui la guerra l’aveva provata. Si combatteva in Spagna e le notizie erano di rovesci sanguinosi e di rappresaglie atroci, come un fuoco che all’orizzonte s’annuncia sinistro e avanza lentamente.

Amalia però non soffriva più di tanto per le inquietudini del nonno o per le espressioni preoccupate del padre, per i suoi discorsi bisbigliati e infarciti di chissà quali segreti; lei ora era alle soglie del paradiso, e il tempo di quell’avventura non sarebbe stato turbato da nulla che non fosse il suo stesso entusiasmo, così difficile da tenere a freno. La sua voglia di vivere minuto per minuto quel frammento di vita che segretamente si augurava lungo, anzi lunghissimo, non lasciava spazio ad altri stati d’animo.

Nei quattro giorni che aveva avuto per prepararsi alla partenza, per organizzare le sue poche cose e per salutare la Rosina, sua amica del cuore, era riuscita a raccogliere tutto ciò che le premeva in una scatola da scarpe. Vi aveva riposto il quadernetto, un mezzo lapis a punta fine, un temperamatite e una gomma e persino due mozziconi di candela che era riuscita a risparmiare e che custodiva da mesi. E poi tre sacchettini di stoffa con la cordicella per conservare gli oggetti-ricordo che avesse trovato, e due nastri rossi per le trecce se fosse capitato di andare a messa e poi alcuni aghi, quattro spagnolette di filo colorato e un piccolo ditale dorato che le serviva per i suoi timidi approcci al ricamo; infine alcuni fazzoletti con le viole ricamate e profumati di lavanda, perché erano i suoi portafortuna.

Sua madre si era raccomandata che portasse solo l’indispensabile, ché nella stiva di prua c’era poco posto e per il superfluo proprio non ce n’era, ma lei la sua scatola era riuscita a portarla senza dare troppo nell’occhio e a nasconderla, dietro il cuscino del pagliericcio.

 

Quella mattina il Piave era avvolto in una strano sudario viola scuro e opaco che non lasciava distinguere il margine tra l’acqua e la sponda. Tutto era fuso in un solo colore: le figure umane, le barche, il fiume, gli alberi e la sponda e se non fosse stato per le lanterne a petrolio che gli uomini reggevano e di cui l’acqua buia rifletteva la luce con guizzi dorati, il porto sarebbe parso un luogo sconosciuto.

C’era un silenzio strano, leggero e sospeso nell’aria umida e gli stessi uomini parlavano sottovoce. Dal Piave giungevano rari richiami di uccelli disturbati e un fruscio liquido e sommesso, d’acqua che scorre, richiamata al mare dalla marea calante.

A levante il chiarore dell’alba s’intuiva soltanto e l’alito d’aria che sfiorava l’acqua era insolitamente fresco, anzi quasi freddo.

Amalia si stringeva nello scialle di lana che la madre le aveva posato sulle spalle gracili e se ne stava rannicchiata, vicino all’albero di prua a osservare i movimenti concitati ma sicuri. Sembrava, quella messa in atto dagli uomini e dalla madre, una cerimonia tante volte provata e collaudata e dunque usuale, ma lei ne era affascinata; anzi, lo era proprio per quei loro gesti sicuri e per la loro intesa che non richiedeva parole, esortazioni o imprecazioni. Anche se quella notte non aveva dormito e s’era rigirata decine di volte nel pagliericcio ora era attenta, con gli occhi sgranati nel buio, come a non volersi perdere un attimo pur sapendo di non poter fare nulla per dare una mano.

A bordo sarebbero stati in quattro; oltre a lei, al padre Ulisse e alla madre che di nome faceva Beppa Scaramal, c’era anche Gelindo, un giovane barcaro sui trent’anni.

L’aveva allevato suo padre, Gelindo e anche se era più giovane di soli sette anni era stato proprio lui ad accoglierlo sul burcio di famiglia sedici anni prima. Ulisse a quel tempo aveva solo ventidue anni e Gelindo, cui era morta la madre di Spagnola e che aveva solo quattordici anni, era stato imbarcato come mozzo. In quegli anni lontani il nonno navigava ancora, ma essendo capitano della sua “nave di fiume” aveva affidato il ragazzo al figlio, raccomandandogli di non essere duro, né arrendevole e di trattarlo come un fratello. Quel ragazzo era figlio di un suo commilitone, di un fratello del Grappa, come lo chiamava lui e s’era prestato volentieri ad ospitarlo per insegnargli un mestiere e mantenerlo.

E così era stato, al punto che ora Gelindo, che era cresciuto in barca, era ormai uno di famiglia.

 

La manovra durò lo spazio d’una mezz’ora e il burcio poté salpare ch’era ancora buio, anche se la fascia di luce che si scorgeva oltre l’argine, a levante, s’era fatta più decisa. La pesante barca venne liberata dagli ormeggi e allontanata dalla sponda mediante lunghe pertiche; poi venne girata lentamente su sé stessa e infine orientata nel verso della corrente. Gelindo afferrò la barra del timone e il gigante cominciò a scivolare placidamente sull’acqua, in silenzio, quasi non volesse disturbare il risveglio imminente del fiume. Una barchetta legata al suo fianco lo seguiva fedele, beccheggiando all’abbrivio come un bambino che saltella seguendo la madre.

Fu in quel momento, a manovra conclusa che la Beppa chiamò Amalia perché scendesse sotto coperta. “Dai, Amalia che te ciapa fredo…. Vien zo, dai!” Le disse, ma Amalia incantata volle starsene ancora un poco rannicchiata vicino all’albero. Voleva vedere la prima luce del sole fare capolino dal profilo dell’argine e chiese di potersi trattenere ancora un poco. Accanto a lei Flik, anche lui rannicchiato e tremante, sembrava aver trovato finalmente qualcuno con cui condividere le frementi emozioni della partenza.

Il burcio affrontò la prima ansa tenendosi al centro dell’alveo, poi percorse quella profonda di Cà Memo; superò lentamente gli approdi del traghetto per Fossalta e Gelindo lanciò una voce di saluto al vecchio che già armeggiava intorno al battello. Infine s’infilò tra le anse del Gonfo, dove le secche sabbiose imponevano al timoniere una conoscenza profonda dell’alveo e delle maree. E in quel tratto l’alba dispiegò le sue scenografie sulla lama lucente dell’acqua che scorreva pigra.

Mentre il cielo si tingeva di un rosa delicato una nebbiolina d’argento cominciò a galleggiare, esalando dall’acqua fino a stendere un velo di perla sulla superficie appena increspata.

Ora la pesante imbarcazione si muoveva tra i veli evanescenti che scivolavano lungo le fiancate quasi volessero accarezzarle, mentre la volta celeste s’incendiava d’un colore sanguigno. La luce nuova ritagliava nitidamente i profili delle cime protese verso l’alto a sostenere l’albero traverso della vela al terzo e lo scenario sembrava quello di un sogno troppo bello per essere raccontato da semplici parole. Una coppia di germani s’alzò in volo rumorosamente davanti alla prua e Amalia ebbe un lieve sobbalzo. Poi, quando l’alba ebbe deciso di cedere il passo al giorno il disco del sole s’affacciò oltre il profilo nudo dell’argine e uno scroscio di luce arancione dilagò sulle cose come una risacca dorata, trasfigurando la realtà con colori accesi e irreali.

I profili neri di un cavallo e di un cavallante percorrevano stancamente l’argine di levante verso monte. Forse era Temi o forse no, ma Amalia si rizzò in piedi e agitò il braccio per salutare.

Avrebbe voluto piangere di gioia.

 

Quel viaggio, il primo lungo viaggio della sua vita alla scoperta del mondo, durò quasi quattro settimane: un tempo infinito, scandito dal silenzio placido delle acque del Po e dai suoni domestici dei paesi affacciati ai fiumi, dal rintocco delle campane che annunciava mezzodì o il vespro. Un viaggio che portò Amalia oltre i confini del suo immaginario e che dispiegò davanti ai suoi occhi meravigliati una laguna luminosa, una pianura senza confini e canneti, anse anguste e fiumi tanto grandi da non potersene scorgere le due sponde insieme e campanili a decine e poi uomini, barche, animali e ancora, ancora, fino a non poter neppure ricordare tutto insieme, ma solo un pezzettino alla volta, un’emozione per volta.

Tutto questo s’è perduto nel sedimento del tempo, nell’alternarsi delle lune, nel fluire delle correnti e nel rincorrersi incessante delle stagioni per anni, per decenni, per lo spazio di vite intere.

A noi è giunta soltanto una paginetta ingiallita di quaderno; una sola, con il margine esile che s’intuisce tinto di rosso perché il colore deborda appena, in certi punti. Una paginetta riempita di poche righe scritte a matita con una calligrafia infantile ma diligente, ordinata; una calligrafia di donna in bocciolo che aspettava di scoprire la vita come s’aspetta, con trepidazione, di scoprire gli orizzonti che si apriranno oltre l’ansa angusta del fiume, oltre i sipari d’alberi, che sembrano aprirsi davanti alla prua del burcio che fende sicura l’ignoto.

Sermide, 5 giugno 1937

Oggi la mamma s’è alzata presto ed è scesa al lavatoio della riva a lavare i panni e a parlare con le altre donne. Io l’ho accompagnata e poi ho steso la biancheria sulla corda tesa sul fianco della barca esposto al sole. Gelindo s’è seduto sulla fiancata e s’è messo a pescare perché ha detto che voleva prendere la cena. Poi sono arrivati i ragazzini che hanno cominciato a fare il bagno tutti nudi. Sembravano scimmiette lucenti e facevano capriole dal pontile, spruzzi e una grande cagnara. E’ bello Gelindo senza la camicia, con i capelli che luccicano di brillantina al sole.

Domani partiremo per tornare a casa. Ho voglia di rivedere il nonno.”

Un amore perfetto

Ricordo molte cose della mia infanzia. Episodi che mi sono rimasti incisi nella memoria forse per le emozioni da cui sono stati accompagnati. Come ben sai, la memoria è una funzione singolare del nostro cervello e a volte si comporta in modo strano; soprattutto a tanta distanza di tempo. Ci sono cose che, ad esempio, ricordo benissimo ed altre invece che sono state cancellate, quasi fossero svanite tra i veli nebbiosi del tempo, che tutto lenisce e tutto guarisce, come una medicina che ciascuno di noi non può evitare di assumere.

Non so se ti conforterà o ti piacerà quello che sto per raccontarti, ma credo che proprio tu, più di qualsiasi altra, sia la persona che può capire. Quella, insomma, cui posso confidarlo. Anche perché, te lo confesso, non ho mai raccontato questo episodio segreto della mia vita di adolescente, ad alcuno.

 

C’era una grande quercia oltre il ponticello che scavalcava il fosso; e il fosso segnava una sorta di confine, di frontiera tra il domestico delle abitazioni, dei cortili e delle stradine lastricate del borgo e la campagna della collina.

Di quel fosso, incassato tra le terre rosse degli uliveti e di quell’albero, vecchio ma ancora forte e vigoroso, sapevo, conoscevo tutto. Posso ben dire, a pensarci bene, che i miei quattordici anni li avevo trascorsi per buona parte lungo le sponde selvose di quel piccolo corso d’acqua o sotto le fronde generose d’ombra di quella quercia.

E pensare che saranno almeno cinquant’anni che manco da quei luoghi. Dopo la morte della nonna non ci sono più tornato. Forse … non so, forse per una sorta di segreto e interiore rifiuto. Forse per non rompere un incantesimo che si conserva intatto nella mia mente. Chissà; un giorno o l’altro dovrò fare i conti anche con questa storia e dovrò trovare il coraggio per tornare, da pellegrino dell’anima, in quel luogo. Se non altro per farmi perdonare e per mettermi il cuore in pace. O forse, ma si, forse per essere certo che loro, il fosso, il ponticello e la quercia, mi sopravviveranno.

Perché con loro sarà la mia storia, quella che sto per raccontarti, a sopravvivere e a profumare ancora e forse per sempre, la brezza tiepida della primavera di collina.

Questa però è un’altra cosa; scusami se mi sono distratto.

 

Ecco, il ponticello, fabbricato in mattoni non so quanti anni prima, era delimitato da due ali: due parapetti, insomma. Due muretti non più alti di un metro; e quanto alla quercia, che affondava poderose radici sulla stessa sponda di ponente del fosso, si collocava al margine di un piccolo prato.

Non un prato di quelli che tu frequenti quotidianamente; non come quello del giardino qui, di fronte, ma un prato magro, arido e polveroso, di gramigna tenace, che non si arrendeva mai, neppure alle innocenti violenze dei nostri giochi.

Tra le nostre case e la campagna, tra le abitazioni e la collina degli uliveti, delle forre e dei frammenti di selva, sopravvissuti a millenni di lavoro contadino, c’era dunque quella singolare terra di nessuno. Quel frammento di periferia segnato dal calpestio, dalle corse, dalle gare e dai giochi di generazioni di ragazzini, ciascuna delle quali l’aveva ereditata da quella precedente, per decenni o forse, per secoli, così com’era.

Quando si usciva di casa, dopo aver assolto ai nostri doveri scolastici, ecco che si raggiungeva il fosso e, superato il ponte, il prato rinsecchito che la quercia sottraeva agli artigli del sole con la sua ombra profumata.

Certo, ti sembrerà retorica e un tantino melensa questa immagine, questa espressione “ombra profumata”, ma qualche licenza poetica devi pure lasciarmela. Come ben sai, tutto è profumato nell’adolescenza e per quanto mi riguarda, quegli aromi di Mediterraneo che aleggiavano nell’aria a primavera e che mi accoglievano nel mio, nel nostro rifugio dell’anima, ancora li percepisco talvolta, intatti.

 

Accadde di pomeriggio ed era di maggio, il mio mese preferito; e non saprei dirti, in tutta sincerità, se maggio sia divenuto tale proprio a seguito di ciò che sto per raccontarti o se lo sia sempre stato.

Del resto, quello è il mese in cui la primavera danza sui declivi collinari, in cui gli usignoli cantano la notte e in cui i grilli sembrano intonare concerti corali sotto fiumi di stelle. E anche questa è solo apparentemente retorica.

Lei era seduta sull’ala del ponte.

La vidi avvicinandomi, ma ti confesso che prima di vedere che era una ragazza, vidi piuttosto che c’era qualcosa, un particolare insomma, che rendeva diversa la familiare immagine del ponticello e della quercia che sorgeva alle sue spalle. Così, a colpo d’occhio, quel quadro così consueto e solitamente essenziale nella solitudine che lo caratterizzava, appariva all’improvviso turbato dalla presenza di una figura che non conoscevo.

Mi resi conto che gli zingari s’erano accampati nel prato soltanto quando fui a non più di venti passi dal ponte. E fu una sorpresa, che mi colse alla sprovvista e che di primo acchito suscitò in me una certa contrarietà. Se c’erano loro, addio giochi, addio conciliaboli con gli altri ragazzi e chissà per quanto tempo. Perché loro, i nomadi, non si sapeva quando arrivavano, ma neppure si sapeva quando sarebbero partiti.

I loro carrozzoni, coperti da teli come quelli dei pionieri americani, s’erano disposti a semicerchio e avevano occupato l’intero nostro prato, alle spalle della grande quercia. I cavalli, ronzini di età e razza indefinibile che avevano calpestato le strade dell’Europa intera, erano al margine del prato, verso la boscaglia e brucavano l’era secca e dura su cui noi giocavamo a pallone.

Gli zingari non erano amati dalla gente del paese; erano ladri, si diceva, persino di bambini e quand’eravamo più piccoli ci era vietato severamente avvicinarci ai loro accampamenti.

Ora però avevo quattordici anni: ero un uomo e loro non mi facevano più paura; anzi, mi incuriosivano. Di pelle bruna, vestivano abiti colorati e suonavano il violino e strani tamburi ed erano chiassosi e sempre allegri; tanto quanto era silenziosa e poco incline al sorriso la gente del paese. Sembrava quasi che questo loro continuo viaggiare disponesse i loro animi a festeggiare qualcosa che mi sfuggiva e che sembravano ritrovare proprio nella dimensione misteriosa di quella vita senza meta e senza patria. Insomma, sembravano in pace con il mondo, non sé stessi e persino con coloro ed erano tanti, che li accoglievano con ostilità ovunque approdassero.

 

Giunto sul ponticello mi fermai. Non volevo che mi scoprissero a curiosare con lo sguardo nei loro temporanei spazi domestici. Una sorta di pudore me lo impediva e avevo la sensazione di non avere il diritto di entrare in quella loro speciale sfera del quotidiano.

Fu solo a quel punto che vidi la ragazza; o meglio, fu a quel punto che mi volsi verso di lei.

Lei mi stava guardando, con un’espressione tra il divertito e l’interrogativo dipinta sul volto. La divertiva, forse, quella sensazione di sorpresa e di lieve disorientamento che mi aveva colto e che mi si leggeva in viso.

Indugiai brevemente con lo sguardo sul suo viso, tentando di dissimulare l’imbarazzo che sentivo come paralizzarmi. Non mi era capitato molte volte di incrociare lo sguardo con le ragazzine della mia età. Erano smorfiose, sempre in compagnia tra loro e, quando le si guardava negli occhi, distoglievano lo sguardo e prorompevano in quei risolini che mi facevano solo innervosire.

Era bella; anzi era bellissima e, come dire, diversa. Una bellezza strana, da donna più che da ragazzina, anche se era evidente che doveva avere non più di tredici o quattordici anni. Il viso era bruno e gli occhi nerissimi; i lineamenti regolari e la bocca disegnata delicatamente ma al tempo stesso carnosa e, come dire, sensuale. Si, sensuale, anche se allora non sapevo neppure cosa significasse, pur essendo io in grado di cogliere l’essenza, il significato e la seducente bellezza di quel concetto.

Ma erano i capelli a completare il quadro di quel viso da Gioconda, pulita e seducente, esotica e dolce. Erano di un colore strano, tra il fulvo e il rosso ed erano raccolti in una grossa treccia che, dalla spalla, le ricadeva sul petto non più acerbo.

Furono attimi lunghissimi quelli in cui indugiai ad incontrare i suoi occhi e poi ad accarezzare il suo viso, per tuffarmi ancora in quegli occhi scuri che sapevano d’antico e che esprimevano una bellezza a me sconosciuta.

Ero, mi sentivo, come annullato e la volontà non riusciva a comandare il mio corpo, immobile e inerte, al tempo stesso incerto se rimanere o se fuggire. Sospeso tra una pulsione alla ritirata frettolosa e l’indugiare ancora e cedere alla tentazione di un tentativo di conoscenza che mi attraeva e mi tentava.

Fu lei, come sempre accade, a rompere gli indugi e a rivolgermi un sorriso tendendomi una mano.

Mi fece cenno di avvicinarmi e di sedermi accanto a lei ed io risolsi in un attimo tutti i miei angosciosi dubbi e accettai, senza riserva alcuna, travolto dalla dolcezza spontanea di quell’invito.

 

Saranno state le tre del pomeriggio e il sole giocava con le nubi candide dei cieli di maggio. Come vedi, non posso rinunciare ad essere un poeta, perdonami. E’ che lo ricordo proprio così: tiepido, luminoso, un giorno strano e dolce, insomma, come capita di tanto in tanto.

Trovavo strano che nessuno dei ragazzi della banda che si riuniva quotidianamente nel praticello della quercia si fosse fatto vivo, ma forse avevano saputo prima di me dell’arrivo degli zingari e si tenevano prudentemente alla larga.

Parlammo per l’intero pomeriggio, io e lei e non chiedermi di cosa, perché non lo ricordo; o meglio, lo ricordo solo in parte. Cose ordinarie: che scuola frequentavo, come mi chiamavo, se mi piacevano gli animali, se conoscevo certi giochi, se temevo gli zingari, se mi piaceva cantare e ballare. Cose così, innocenti e senza importanza e tuttavia mai mi sono sentito tanto a mio agio, conversando con una ragazza, come in quella circostanza. Perché nei nostri scambi di conoscenze e di gusti, poco a poco ero riuscito ad entrare in quel suo mondo strano e diverso e persino a capire lo spirito che animava quella gente.

E poi era bella, troppo bella e quando mi rivolgeva la parola guardandomi negli occhi sentivo che il mio essere ne era dolcemente appagato, come accade soltanto nei momenti della vita in cui si verifica la singolare, stupenda magia che ti fa sentire in armonia totale con la persona che ti sta vicina. C’era insomma, s’era creato nei suoi confronti, una sorta di magnetismo che mi impediva di andarmene, di staccarmi da quel sedile scomodo, di allontanarmi. Quasi avessi il timore di perderla, di vivere cioè una sorta di incantesimo inverso e di vederla svanire per sempre, allo stesso modo in cui l’avevo trovata.

Non so se lei percepiva le stesse sensazioni, ma sta di fatto che sosteneva con interesse e con intensa partecipazione la nostra estemporanea conversazione. Ed era bello essere li, all’ombra della grande quercia, a due passi dall’accampamento da cui giungevano suoni di voci umane e strilli di bambini, ma al tempo stesso essere fuori dal tempo e dallo spazio, sospesi in una dimensione che mai, prima d’allora, avevo conosciuto.

 

Si fece sera. L’ombra della quercia s’allungò e i colori assunsero tonalità sature e dorate. Il sole doveva essere in procinto di immergersi oltre le colline di ponente e io avvertivo la sottile angoscia dell’imminente distacco salire lentamente. La sentivo salire dallo stomaco e fermarsi in gola e, per quanto deglutissi, la sentivo formare quel magone emotivo che prelude alla fine di un’esperienza che invece vorresti non finisse mai.

Ma fu ancora lei a stupirmi, perché ad un fischio prolungato e acuto che giungeva dall’accampamento, mi si rivolse fissando i suoi occhi nei miei e dicendomi, con la naturalezza che distingue gli inviti sinceri, se volevo cenare con loro.

Ti confesso che rimasi perplesso. Perché se già quell’incontro aveva suscitato nel mio animo emozioni che non sapevo descrivere, se già quel pomeriggio mi sembrava sempre più una sorta di sogno che poteva come tale infrangersi in un attimo, quell’invito andava oltre. Anzi, quell’invito, inatteso quanto improbabile era invece la riprova che era tutto vero. Che tutto stava accadendo veramente.

Non risposi subito e la guardai titubante e un po’ imbarazzato. E già nella mia mente andavano prendendo forma risposte del tipo “ma, veramente io ceno più tardi. Grazie comunque: come se avessi accettato” oppure “scusami, sai, sarei rimasto volentieri, ma mi aspettano a casa e poi devo ancora fare le lezioni per domani”. Ma mentre questo accadeva; mentre questi attimi eterni si stavano consumando e sentivo esplodere in me il conflitto tra un si istintivo e detto con il cuore e un “no, grazie” detto con la mente, fu lei a risolvere la situazione.

Con un balzo lieve scese dal sedile di pietra dell’ala del ponticello, mi prese per mano e mi invitò a seguirla. “vieni dai, non ti mangia nessuno” ricordo che mi disse, ma quel che ricordo fu, soprattutto, il sorriso con cui accompagnò quelle parole. Un sorriso cui non potevo, cui non volevo, cui non seppi resistere.

Fu così che mi ritrovai accoccolato su una stuoia, accanto a lei, al cospetto di un fuoco zingaro, che ardeva allegramente mentre la volta celeste imbruniva appena.

 

Non ricordo quanti fossimo attorno a quel fuoco, né cosa si disse, né chi mi rivolgesse la parola, se mai qualcuno me la rivolse. Ricordo soltanto l’atmosfera di libertà e di attesa al tempo stesso. Perché nessuno avrebbe osato profanare quella cerimonia, che era semplicemente la preparazione di un altro giorno vissuto senza legami, senza mete, con la sola missione di goderne la luce, le musiche, i profumi.

Sento di non esagerare se ti dico che, in quella speciale circostanza, anch’io mi sentii un po’ zingaro e mi ritrovai leggero e senza fardelli che gravassero sulla mia mente o sul mio cuore. Mi sentii figlio di una tribù, protetto dall’intera assemblea di uomini, donne e ragazzini che mi stavano intorno e che mi guardavano, divertiti, sbirciando la mia diversità e il mio malcelato imbarazzo. Perché accanto a me c’era lei, che mi aveva accolto come si accoglie qualcuno che si è lungamente cercato, con la naturale dolcezza che esprimeva una disarmante, struggente sincerità.

Sul fuoco giravano alcuni spiedi e, infilzati su questi, i corpicini di piccoli animali che non avrei saputo riconoscere. A turno ciascuno sfilò un frammento di quel rustico arrosto e fu proprio lei a farlo per me e a porgermi una piccola coscia. “Prendi e assaggia”, mi disse, “è porcospino. Senti che buono e come profuma”.

Ti confesso che quella fu la prima e ultima volta che mangiai carne di riccio e ti confesso pure che la trovai buona e che non fu la suggestione del momento. Lei mi disse che i piccoli cani che la carovana si portava al seguito avevano proprio questo compito: scovare i porcospini e … procurare la cena.

Se quel giorno doveva concludersi con qualcosa di memorabile, ebbene accadde. Perché quella fu una cena indimenticabile, come la musica che ne seguì e le risate e il chiasso festoso intorno a quel fuoco.

 

Quella notte non dormii.

Era come se nel mio animo ribollissero sentimenti che non conoscevo; come se prendessero corpo fantasie  che erano tanto inquietanti quanto affascinanti. Perché quello non era un sogno, ora ne ero certo e la domanda che mi si poneva nonostante tentassi in tutti i modi di ricacciarla negli angoli oscuri del subconscio era: che farai ora che l’hai conosciuta? E come farai a dimenticarla, a lasciarla andare e a fingere che non esita per il resto dei tuoi giorni?

Ma era soprattutto l’immagine di lei, di quei suoi occhi, di quella mano che afferrava la mia, che non mi dava tregua; ed era anche l’assillo di cosa stesse pensando lei, ora. Se fosse sveglia, se mi stesse pensando come io la pensavo e se anch’io fossi rimasto nei suoi occhi e nella sua mente.

Fu una delle notti più lunghe e travagliate della mia vita e il giorno dopo, a scuola, faticai non poco a non crollare addormentato sul banco. Ciò che mi teneva sveglio era soltanto il pensiero che di li a qualche ora avrei potuto rivederla e parlare di nuovo con lei e dirle tutto ciò che non avevo ancora potuto dirle e …

Mangiai in fretta, al ritorno da scuola e volai verso il ponte, con il cuore in mano.

Sul ponticello non c’era nessuno e quando lo raggiunsi vidi che i carri già si stavano muovendo.

L’accampamento era stato smantellato e il viaggio interminabile degli zingari riprendeva.

Il cuore mi sobbalzava in petto, ma non seppi fare altro che sedermi sull’ala del ponticello e attendere che la breve processione sfilasse davanti a me.

I ragazzini e le donne che tenevano le redini dei cavallucci sfiancati mi salutarono ed io rivolsi loro un sorriso. Poi sfilò il terzo carro e la vidi. Se ne stava seduta dietro, con le gambe a penzoloni, quasi volesse essere l’ultima a lasciare quel luogo.

Aveva i capelli sciolti, di un rosso che non so descrivere e mi sembrava ancora più bella.

Scesi dal mio sedile e stetti così, in piedi, a guardarla.

Lei mi fece un cenno con la mano e mi rivolse un sorriso che mi sembrò di rassegnato, fatale commiato. Un sorriso che diceva “lo ha voluto il destino che ti incontrassi e non ti dimenticherò”. Rimanemmo a guardarci per qualche minuto, finché i carri non svoltarono verso il borgo. Perché non ebbi il coraggio di seguirli e avevo solo voglia di piangere.

Non l’ho più rivista e quello rimane l’amore più bello della mia vita. L’amore più pulito, il più sincero, il più vero, il più spontaneo; insomma, un amore perfetto.

 

Ecco ragazza mia, tuo nonno ti ha svelato un frammento segreto della sua vita che non ha mai condiviso con nessuno. E l’ha fatto per farti capire che l’amore, quello vero, giunge in punta di piedi quando meno te lo aspetti e non ti lascia più.

Se quel giovinetto ti ama davvero, si farà vivo, credimi. Tu non cercarlo e non piangere.

Se non lo farà, significa semplicemente che non ti merita.

 

” Ecco ragazza mia, tuo nonno ti ha svelato un segreto della sua vita che non ha mai condiviso con nessuno. E l’ha fatto per farti capire che l’amore, quello vero, non finisce mai e si rinnova ogni volta trovando un appiglio antico. Sai, tua nonna aveva una vaga sfumatura di rosso nei suoi capelli…. ”