Caro capitano
Quando sono giunto al paese aggrappato al versante sud della collina e assediato dal bosco, il sole aveva da poco scavalcato le gobbe fossili dei colli di levante. Dopo le tortuose anse della stradina, tra forre umide e buie, alle soglie dell’abitato la luce radente che incendiava il rosso fiamma delle foglie di ciliegio mi è scrosciata addosso improvvisa. Da poco le sue onde s’infrangevano limpide sulla facciata bianca della chiesa e sul campanile di sasso facendoli rifulgere nella mattina d’autunno; e si capiva come tutto questo avvenisse perché la loro immagine di pace potesse riflettere quella luce il più possibile lontano, verso sud, tra gli uomini della pianura.
Era la prima volta che visitavo questo luogo e che salivo la gradinata monumentale per affacciarmi al recinto sacro che guarda gli orizzonti di pianura del Friuli. Era la prima volta che potevo ammirare il solco grigio del grande fiume che scorre lontano, verso est, brillante come una lama d’argento vivo; e le brume azzurre della pianura in cui s’immergono pavide le prime, basse colline, come branchi di mitici e villosi animali dormienti.
Era la prima volta che incontravo questo paese cui hanno rubato l’anima con gli intonaci freddi e impersonali, con le persiane tetre, con le assurde architetture in cemento e allumino anodizzato che, volendo essere ricostruzione, hanno portato alle conseguenze estreme le distruzioni del terremoto del Novecentosettantasei.
Per questo forse, ma forse non solo per questo, ho visitato il cimitero che s’adagia all’ombra della massiccia torre campanaria. L’ho fatto soprattutto perché ero convinto di ritrovarla li l’anima vera della gente di questo luogo: sepolta, commemorata, celebrata nelle epigrafi del dolore e degli affetti popolari, ritratta nei cammei in bianco e nero di un passato non lontano.
Devo dirti, caro Capitano, che il momento era pervaso da una sottile magia ed era solitario, come lo sono le mattine d’autunno in cui il sole accarezza la collina per esaltarne i colori. Quando i fringuelli si muovono a frotte, con voli brevi, lanciando richiami da un albero all’altro per non perdere il contatto con lo stormo che migra.
A quell’ora, che per il passato contadino di questa gente sarebbe stata già tarda, ma che ora s’avvertiva pigra e quasi languida, non c’era nessuno sulla scalinata monumentale; nessuno osservava l’orizzonte dal recinto sacro della chiesa affacciata a lontane distese alluvionali; nessuno percorreva i vialetti di ghiaia fine del cimitero, nessuno indugiava a parlare sottovoce con i morti.
Sembrava un giorno sorto senza che gli uomini se ne accorgessero, così, solo per far pensare i pochi tra loro che s’erano destati, per farli meditare e condurli attraverso quei sentieri della memoria e della nostalgia cui più non sono avvezzi o forse che non amano più percorrere.
Sono entrato nel cimitero in silenzio, come un ospite che deve farsi accettare, con deferenza e ho incontrato subito il Cagnasc. Giovanni Cescutti, nato il sei di luglio del 1846 e detto “Cagnaccio”, se ne stava li, aggrappato al muro di cinta a guardare la collina alle spalle del borgo, divenuta selvosa. Se ne stava li quieto, con la sua faccia da brigante stanco e la sua barba candida e incolta, con il suo cappellaccio da pastore e con gli occhi smarriti nel tempo dei suoi anni migliori e nelle vicende alterne del suo passaggio terreno. Non era cattivo Cagnasc, lo si capisce dallo sguardo; era soltanto un po’ selvatico, forse, come tutti quelli cui l’esistenza ha dato poco e che hanno espiato per la vita intera le colpe d’altri, con la fatica. Poteva essere tuo nonno, Capitano, perché era morto quattro anni dopo la tua nascita e doveva essere forte e tenace, perché s’era arrampicato sulle balze della vita fino alla bella età di settantacinque anni.
Poi via via ho scoperto gli altri: uomini e donne, tutti allineati lungo lo stesso muro, insieme come a far conciliabolo, a vegliare i discendenti, a commentare le vicende dei vivi fino ad accoglierli infine tra loro, serenamente. Loro, i custodi dell’anima di questo paese, se ne stavano appartati ma non del tutto dimenticati; piuttosto sopportati e lasciati a sorreggere un muro forse troppo vecchio, ma non ancora cadente. Un muro su cui gli architetti del Giubileo non avevano potuto o voluto mettere le mani e calare i picconi per sostituire al sasso eterno le strutture effimere del cemento armato. Forse per non commettere l’ultimo sacrilegio al cospetto di una comunità che si sta lentamente estinguendo.
E’ stato soltanto dopo, uscendo dal cancello di ferro scuro che ho incontrato te; ed è stata la tua stella rossa a rivelarti. La stessa in cui credevi come in un simbolo di liberazione dell’uomo e che ti ha fatto confinare all’esterno del recinto sacro in cui sono rifugiati coloro che credevano nella croce come simbolo di riscatto da un immaginario peccato originale.
Caro Capitano Daniil, è stato bello scoprire che ci sei anche tu; che sei alle spalle di Cagnasc e che guardi la pianura lontana e perennemente avvolta nei veli perlacei del controluce e delle brume.
E’ stato bello conoscere il tuo volto di giovane russo, dall’espressione un po’ corrucciata e seria, come chi è convinto di dover compiere la missione eroica di salvare il mondo, ma ha l’impressione di non esserci riuscito.
E’ stato bello scoprire che hai fatto dono a tutti noi dei tuoi ventisette anni, come l’avresti fatto per la tua gente, ma è anche triste constatare che ti abbiamo ripagato negandoti il recinto sacro riservato ai credenti.
Eppure anche tu credevi nel riscatto dell’uomo e per questo hai dato la vita: che differenza c’era? La pietà che la nostra religione invoca non era forse sufficiente a ripagarti di tanto sacrificio? Pare proprio di no ed è per questo che ho sostato accanto a te, in silenzio, per un frammento di quella mattina di sole e di luce d’autunno: per farti compagnia; per farmi perdonare, per chiederti di non avercela con noi. La morte rende tutti uguali: il grande notaio, l’alto magistrato e l’umile servo-pastore sono soltanto anime solitarie e indistinguibili nell’altra vita, questo lo sappiamo bene. La sola differenza fra il tuo credo e il nostro è che tu volevi l’uguaglianza in questa vita; noi, invece, siamo stati convinti che ci verrà dispensata soltanto nell’altra e che l’ingiustizia si riscatta soltanto dopo la morte.
Caro Capitano della Cavalleria Sovietica, che avresti l’età di mio padre, mi è bastato poco per sentirti amico, per sentire che molto abbiamo in comune. Certo, abbiamo, perché anche se sono nato tre anni dopo la tua morte, tu continui a vivere e a diffondere il tuo messaggio, la forza e l’orgoglio della tua stella rossa, con la dignità e il coraggio di chi accetta di morire per le idee cui s’è donato. Questa è fiducia nell’uomo e nasce dalla certezza che qualcuno raccoglierà il messaggio che ciascuno di noi lascia, nel momento in cui varca il recinto sacro e viene appeso al muro o incorniciato da una lapide di marmo.
Sostando accanto a te ho restituito colore ai tuoi sogni ed ho pensato alle pianure ondulate che sconfinano oltre gli orizzonti visibili; ho pensato ai fiumi pigri e imponenti e ai boschi di betulle d’argento attraverso cui pensavi un giorno di cavalcare in pace. Non temere, Capitano, non ti dimenticheremo e l’averti deposto all’esterno del muro, in compagnia della tua stella rossa è stato semplicemente frutto di un atto di delicata pietà. E’ stato perché tu potessi spingere lo sguardo oltre la collina e guardare la pianura azzurra; perché tu potessi sognare la steppa dorata e i suoi cieli illuminati da nuvole immense. Perché potessi continuare a cavalcare con i tuoi compagni, al galoppo e guidare la carica con la sciabola sguainata, come un eroe, per sconfiggere la morte e conquistare l’immortalità nei nostri cuori.
E quando la sera le altre anime si siedono sul muro di cinta del cimitero confabulando e bisbigliando assorte dei destini di questo luogo, avvicinati a loro senza timore; loro non avranno paura della tua uniforme e della tua stella rossa e ti accoglieranno come un figlio, come un fratello, come un friulano che, semplicemente, parla un dialetto strano, di un’altra frontiera.
Loro, i morti del popolo dall’animo semplice e dai sentimenti sinceri, ti faranno sentire a casa.
Grazie Capitano.