Il Tenore del Popolo
Il Tenore del Popolo
Racconto di Michele Zanetti
In certi giorni della primavera, quando il sole supera le due solide barriere degli argini, le acque della bassa Livenza sono limpide al punto da potersi quasi scorgere il fondo. “Acque pulite, acque da anguille”, diceva sempre il vecchio Simone Baldissin. E in effetti lui, pescatore di professione di Torre di Mosto, con le guizzanti anguille d’argento della Livenza aveva mantenuto la famiglia e allevato i figli; non solo, ma aveva portato con sé a imparare il mestiere impegnativo del pescatore di fiume anche Francesco, il maggiore dei quattro, che ormai aveva diciotto anni.
E Francesco l’aveva presa bene e aveva affrontato la dura iniziazione al lavoro quotidiano sulle acque del fiume, se non con proprio entusiasmo, con buona volontà e spirito di sacrificio.
Certo, c’erano i giorni difficili: quelli delle dita bagnate dall’acqua gelida di febbraio e gelate dal soffio della Bora, che s’incanalava tra gli argini, spazzando le anse rivolte a est e increspando le acque fino a inzuppare gli stessi pescatori. Ma c’erano anche i giorni di autentico trionfo: quando nella tarda estate le anguille sciamavano a milioni nelle acque smeraldo e, nel tentativo di raggiungere il mare, riempivano i bertovelli di corpi grassi, guizzanti e viscidi, che poi finivano nelle capienti tinozze della barca di Simone e quindi al mercato ittico di Caorle.
Il rapporto tra il giovane e il fiume, nato e cresciuto con lo stesso Francesco, che nelle sue acque aveva imparato a nuotare sin da bambino, s’era dunque assestato con lo sfumare della sua adolescenza, fino a raggiungere quella stabilità che sembrava doversi perpetuare per il resto della sua vita.
C’era tuttavia una cosa che turbava la vocazione ereditaria del giovane pescatore. Una cosa che aveva creato persino qualche conflitto in famiglia, proprio in ragione del fatto che i genitori di Francesco le attribuivano una importanza del tutto differente.
Accadeva, infatti, che Francesco fosse dotato di un timbro di voce del tutto speciale e che le sue frequenti esibizioni canore esprimessero un evidente e inconfondibile livello tenorile.
Proprio così: Francesco era un tenore nato, dotato come tale di capacità canore che facevano vibrare i vetri e venir la pelle d’oca dall’emozione, in chi lo ascoltava.
Questo la madre Lisetta, l’aveva compreso fin da quando il mutare della voce del ragazzo in quella del giovane uomo, non si era rivelato, proprio grazie alla sua innata passione per il canto. Più di qualcuno, poi, avendolo ascoltato nelle sue estemporanee esibizioni, in chiesa o tra gli amici dell’osteria, la domenica, non aveva avvicinato i genitori per suggerire, con la dovuta discrezione, l’opportunità di farlo studiare.
Già, farlo studiare; ma dove e a chi rivolgersi. E poi, che mestiere era mai quello del cantante d’opera, che se non vieni spinto dalle raccomandazioni, dai “calci nel culo”, come diceva grossolanamente il padre, non vai da nessuna parte e magari ti ritrovi a cinquant’anni senza un soldo in tasca e senza un mestiere. Meglio il pescatore, meglio le anguille, che le scarpe e i calzoni che il giovane indossava non glieli aveva regalati la Divina provvidenza, ma li aveva comprati lui e grazie alle tinche dorate e alle anguille d’argento della Livenza di Torre e di Biverone.
Il conflitto in famiglia, comunque, non era destinato ad assumere toni esacerbati; e questo, sia per il carattere mite e sottomesso della Lisetta, che per quello burbero ma bonario di Simone. Così, alla fine, proprio per l’amore che Simone nutriva per lei, pur senza ostentarlo e grazie alle crescenti pressioni dello stesso parroco, si addivenne ad un compromesso: Francesco sarebbe andato a scuola di canto lirico a Venezia da tale maestro Alvise Loredan, di Cannaregio.
Ci sarebbe andato una sola volta la settimana, però, di mercoledì e per sei mesi di prova, ché ogni lezione costava due tinozze di anguille se non di più.
Francesco mise dunque piede a Venezia, con la timidezza e la soggezione che è propria dei giovani di provincia, che non hanno mai visto tanta bellezza galleggiare sull’acqua, se non in cartolina.
Mise piede a Venezia e si perse tra calli e campielli, giungendo alla prima lezione in ritardo e dovendo subire i severi rimproveri del maestro. Quest’ultimo, però, non tardò a rendersi conto che il timbro di voce del giovane era davvero straordinario; non solo, ma che la sua totale assenza di cultura in fatto di tecnica del canto, di pause, di acuti, di bassi e quant’altro, ne faceva una materia vergine da plasmare a suo piacimento. Una materia che avrebbe potuto garantire a lui e al suo giovane allievo, soddisfazioni e palcoscenici di livello almeno nazionale.
Cominciò così l’avventura veneziana di Francesco, con scale e gorgheggi ripetuti all’infinito e con qualche capannello di curiosi che non di rado si raccoglieva nella calle verso cui si affacciava la finestra dello studio del maestro, quando il giovane provava. Un’avventura che ben presto egli intuì essere lunga e per certi versi estenuante, perché furono chiare fin da subito le parole del maestro Alvise: “La ribalta internazionale bisogna guadagnarsela con sudore e sangue, con sangue e sudore, caro il mio giovine”.
A quale sangue si riferisse, il giovane non lo comprese mai e anzi si stupiva e rideva tra sé quando, giunto l’autunno, lo stesso Alvise lo congedava raccomandandogli di un prendere freddo e umidità, di coprirsi bene la gola e di non uscire per nessuna ragione di casa quando c’era la nebbia.
Rideva, certo, perché il mattino dopo, con qualsiasi tempo, egli era in barca e vogava alla vallesana per vincere la corrente della Livenza e ispezionare i bertovelli a monte.
I sei mesi pattuiti in casa trascorsero comunque in fretta e il momento della grande decisione giunse prima di quanto lui stesso si aspettasse.
Nel frattempo egli aveva fatto buoni progressi nell’impostazione della voce e i primi risultati cominciavano a palesarsi; e tuttavia, pur essendo ancora lontano dagli obbiettivi che il maestro aveva preconizzato, una decisione andava presa e senza troppi tentennamenti.
Fu così che Francesco decise di abbandonare la carriera di tenore, dovendo lui stesso convincere la Lisetta che la pesca nel fiume avrebbe potuto garantirgli un futuro più sicuro del bel canto.
Qualcuno in paese giunse a mormorare che un ruolo decisivo in quella scelta l’ebbero i due occhi azzurri della Manuela, la figlia del fornaio, che nel frattempo Francesco aveva cominciato a frequentare con assiduità assai maggiore delle lezioni di canto; ma erano soltanto illazioni.
La stessa Lisetta, del resto, si rassegnò non senza aver versato qualche lacrima, al punto che il giovane dovette rassicurarla sul fatto che lui, comunque, avrebbe continuato a cantare, anche senza palcoscenico, anche senza pubblico, anche senza maestro. Cosa, quest’ultima, che in realtà non accadde; semplicemente perché, quando Francesco cantava durante il lavoro di levata dei bertovelli e di raccolta del pescato, sull’argine di Torre di Mosto una piccola folla di nonne, mamme e ragazze, si raccoglieva per ascoltarlo. E gli applausi fioccavano, con le grida di entusiasmo, quando egli intonava il “Nessun dorma”, che si concludeva con un trionfante “vincerò”.
Fu così che Francesco, pur non essendo mai diventato un tenore dell’Arena di Verona, divenne un tenore del Popolo; del Popolo di Torre di Mosto, o meglio un tenore della sua Livenza. E chissà cosa avranno pensato le anguille, i cui guizzi nell’oscurità smeraldo delle acque del fiume, erano accompagnati dalle note delle romanze più famose.
Tutto questo accadeva verso la metà del Novecento, mentre ora il fiume è muto e deserto delle anguille d’argento e dei pescatori che le insidiavano. Quasi che la storia vera che abbiamo raccontato sia stata soltanto una favola d’altri tempi. Tempi di radiosi miraggi di futuro, di acque limpide e fertili, di tinche, di lucci e di anguille: tantissime anguille.