Maggio

(Opera prima classificata al concorso letterario dell’Oratorio di San Donà di Piave “Un racconto per settembre”) SETTEMBRE 2000

Certi nomi sono difficili da portare. Di solito avviene che il nome strano lo si affibia ad un bimbetto, che se lo porta con inconsapevole, disinvolta allegria, ma poi con il tempo si avverte l’incongruenza, che fa stridere il suo significato e mette in evidenza difformità profonde tra il carattere, l’aspetto ed i comportamenti dell’uomo ed appunto il significato del suo nome.

Così era successo a Maggio, ultimo di quattro fratelli, cui era morta la madre, come spesso avveniva tra i poveri dei suoi tempi, nel momento stesso della nascita. Da subito s’era rivelato un bambino taciturno, poco propenso al sorriso ed al gioco in compagnia, anche se tranquillo e sorprendentemente generoso.

Era cresciuto, del resto presso una zia materna, essendosi il padre risposato con un’altra donna che già aveva un figlio. Non che fosse stato rifiutato dalla matrigna, anzi: è piuttosto che proprio non ce n’era per tutti ed il sacrificio maggiore era stato chiesto proprio a lui, al più piccolo.

Tra i braccianti e i diseredati, che faticavano con la zappa in mano per dieci ore al giorno per avere appena di che vestirsi e sfamarsi, non erano in uso, in quegli anni, forme di assistenza all’infanzia: non si sapeva cosa fossero gli psicologi che interrogano i bambini per scoprire i loro segreti disagi e porvi rimedio.

Così Maggio crebbe portando nel proprio animo il dolore della separazione dai fratelli e quello, ancor più lacerante, di non avere una madre da cui essere rimproverato, premiato e tra le cui braccia rifugiarsi nei momenti di sconforto. Il suo carattere di ribelle andò dunque formandosi poco a poco, nella rarefatta vacuità di affetti troppo lontani, nell’assenza di amici veri, nella cupa incertezza per un futuro di uomo che prometteva soltanto tribolazioni, rinunce e dura disciplina ad idee che non condivideva.

Nei vent’anni della sua vita di bambino silenzioso, di adolescente solitario e di giovane inquieto, il Fascismo aveva afferrato le redini della Nazione ed era cresciuto sino a divenire per molti una fede, assoluta e violenta. A questa stessa, infine, il giovane Maggio, dalle mani callose di badilante, s’era ribellato con forza e determinazione.

Contro tutto questo egli rivendicava il diritto di costruirsi un futuro libero da parole d’ordine, da servilismi, da miserie morali, da pesantissimi silenzi imposti. Con l’incoscienza ed il coraggio che soltanto i vent’anni e l’assenza di esperienze di vita impongono, non aveva neanche cercato conforto in altre ideologie o in diversi credo: egli era solo e per questo considerato con sospetto ancora maggiore.

Al termine del primo mese di leva, nell’aprile del 1940, l’avevano assegnato ad un battaglione punitivo e caricato con migliaia di altri sventurati, su una lentissima tradotta diretta verso est. Della Russia Maggio sapeva soltanto ciò che si leggeva sul sussidiario di terza elementare, imbevuto di  ridicola retorica di regime e di povere illustrazioni militaresche.

Eppure quel nome lo affascinava: Russia, pianura, steppa, spazi sconfinati, cieli vastissimi, vento, inverni gelidi, slitte, cavalli al galoppo, pascoli verdissimi, gente come lui, contadini, poveri, guerra. A loro andava a far la guerra Maggio: a contadini poveri, cui la sconfitta avrebbe imposto nuovi padroni e le spesse patate, lo stesso pane di segala, gli stessi cavoli di sempre, con appena qualche sofferenza in più.

Forse proprio lì, tuttavia, avrebbe trovato chi lo capiva, qualcuno insomma disposto a parlare il suo linguaggio, ad ascoltare e comprendere i suoi silenzi, a leggere in fondo ai suoi occhi grigi, colmi di solitudine e di generosità.

La prima cartolina era giunta da un luogo sconosciuto e lontano, soltanto un mese dopo. Salutava tutti, diceva poche cose laconiche: di trovarsi bene, delle numerose zanzare e di tante betulle, come non ne aveva mai viste. Era maggio quando la scrisse e nessuno in famiglia se l’aspettava, dato il suo carattere e la sua scarsa propensione alle relazioni sociali, ancorché formali e di rito. Grande fu pertanto lo stupore quando ad essa ne seguirono altre, con sorprendente regolarità, a cadenza quindicinale: tutte vergate con quella sua grafia incerta, eppure fresche, leggere, quasi venate da un soffio lieve ed autentico di semplice poesia.

La censura militare, ferrea quanto pretestuosa, gli impediva di parlare dei luoghi e della gente, ma egli lo faceva indirettamente, descrivendo col suo stile essenziale, le atmosfere, i colori, la vastità di un mondo che certo lo affascinava, ma che lo faceva anche soffrire, nella deriva senza speranza di un oceano di nostalgia. Raccontava, Maggio, di un fiume tranquillo come il Po, ma più grande e più chiaro, assediato da boschi di pioppo dalle foglie tremolanti ed increspato da aliti di vento che giungevano di lontano recando profumi sconosciuti.

Raccontava di campi di grano che dilagavano verso orizzonti senza confini, grandi come il mare e come questo percorsi da gigantesche onde, che incurvavano i profili del suolo; ed ancora di boschi fitti di betulle dal tronco candido, così uguali e così silenziosi che ci si poteva perdere. Raccontava di cieli di stelle tanto uguali alle nostre da non riuscire a distinguerle, ma brillanti come i cristalli di brina al primo scroscio di sole. Della guerra, dell’avventura sciagurata che stava vivendo, delle atroci sofferenze che provava e che provocava, non c’era nulla nelle sue parole: non un cenno, non un indizio, nulla.

Trascorsero così i mesi delle messi e delle trincee, dell’attesa e delle foglie gialle. Le betulle divennero d’oro, i pioppi si tinsero d’ocra lungo il grande fiume silenzioso e le sue acque si fecero bionde di limo e turbinose. Vennero le piogge interminabile, le nebbie grevi e le nostalgie insopportabili, le brinate ed i geli di un inverno sconosciuto e feroce, che si affacciava sulla scena di una guerra non ancora combattuta come un protagonista crudele e inatteso. Poi cadde la neve: ne cadde tanta, come Maggio non ne aveva mai vista; tanta da trasfigurare il paesaggio, annullando nel candore velato d’azzurro le onde della steppa ed i boschi di betulla, le trincee e le speranze di tornare.

Egli scriveva nelle cartoline verdi, con il francobollo stampato ed il timbro della censura militare, che sognava talvolta la Clara: quella ragazza del paese vicino con cui aveva ballato una volta sola; ma più spesso lo sfalcio dell’erba medica, nella guazza del primo mattino, ed il profumo della polenta abbrustolita e tante altre cose che gli mancavano. Dei cannoni, il cui rombo udiva avvicinarsi con l’inesorabile lentezza degli eventi fatali, attraverso le vastità senza dimensioni di un orizzonte sconosciuto, non scrisse mai.

Fu verso la metà di dicembre che i Cosacchi attaccarono, ma questo lo si seppe soltanto molto tempo dopo. Essi apparvero all’orizzonte materializzandosi dal nulla, lanciati ad un galoppo sfrenato e suicida e le loro grida sembravano cori esultanti e lontani, che il tambureggiare di mille zoccoli ritmava quasi festosamente. Poi cominciò il crepitìo delle mitragliatrici e cavalli e cavalieri si trasformarono presto in grottesche statue cristallizzate dal gelo. Questo successe il primo giorno in cui la guerra incontrò Maggio e gli parlò del suo destino e da quel giorno Maggio non scrisse più.

Le cronache belliche, al solito prodighe di particolari terribili e angoscianti, descrissero con dovizia ciò che avvenne dappresso: della rotta, dell’accerchiamento, della disfatta, del sudario di neve che tanti giovani avvolse senz’alcuna pietà, in quelle vastità vuote dove la solitudine non concede speranza. Di Maggio, tuttavia, non si seppe più nulla: egli era stato inghiottito dall’orco dell’inverno in quella terra sconosciuta, dove il grano matura a luglio e le betulle sembrano confabulare sommesse ad ogni alito di vento primaverile. Né ottennero alcun risultato le ricerche di quanti lo amavano ed inseguirono per anni la speranza di ritrovarlo, bussando a cento porte, con il cappello in una mano e la foto di un giovane serio, dai lineamenti fini nell’altra.

Io non l’ho mai conosciuto, ma in casa si parlava spesso di lui quand’ero bambino e me lo figuravo, guardando la foto ritoccata sul comò della nonna, come uno zio ragazzo, un po’ taciturno, ma buono e generoso, come sa essere soltanto chi ha sofferto tanto. Si chiamava Maggio e solo questo nome insolito, solare e profumato come i prati primaverili, me lo faceva amare.

Sono passati molti anni e molti hanno dimenticato; altri, che son venuti dopo, addirittura non hanno mai saputo e non sapranno mai. In fondo è normale che sia così: come farebbe altrimenti la storia ad indurre gli uomini nei tragici errori dei padri? Questi tuttavia sono discorsi diversi e troppo difficili. Quanto a me, io non dimentico; soprattutto non lo dimentico e quando sento il poeta cantare: “Dormi sepolto in un campo di grano, non hai la rosa non hai il tulipano che ti fan veglia dall’alto dei fossi, ma solo mille papaveri rossi”, penso in cuor mio che sia stata scritta proprio per lui, per il giovane Maggio che avrei tanto voluto conoscere.