PIANTE E ANIMALI DEL BASSO PIAVE

PIANTE E ANIMALI DEL BASSO PIAVE

TRACCE VIVENTI DI PALUDE E DI FORESTA

Di Michele Zanetti

 

Giungendo dai territori ondulati e ghiaiosi dell’alta pianura, il Piave affronta il tratto conclusivo del proprio divagare verso l’Adriatico, nelle terre di San Donà. Il suo alveo diviene profondo e sinuoso e le sue acque, di colore smeraldo, scorrono pensili sulle distese della campagna di bonifica, costellate di paesi e di abitazioni rurali. Il territorio intero appare radicalmente modificato da millenni di lavoro umano e la sola naturalità che ancora sopravvive sembra essere quella confinata entro gli angusti limiti delle arginature fluviali, dove i boschetti di Salice bianco contendono faticosamente spazi all’invadente Robinia. Il bosco ed il fiume, nel confronto che li oppone da tempi immemori, sembrano qui immuni dalle contaminazioni e dai ritmi delle attività dell’uomo, quasi a ricreare un’atmosfera senza tempo. La natura dell’alveo e delle sue sponde, direttamente esposta alle pulsazioni stagionali del fiume alpino e quella delle limpide correnti della Piave Vecchia, che ne costituisce l’alveo storico, presentano infatti evidenti motivi d’interesse.

Interessanti sono alcune presenze floristiche del Piave, come quella dello Zigolo ferrugineo (Cyperus glomeratus), che vegeta sulle spiaggette umide e sabbiose, o come quella di maestosi alberi di Pioppo bianco (Populus alba), che ombreggiano le sponde associandosi in boschetti luminosi o della candida e regale Ninfea bianca (Nymphaea alba), che fiorisce nelle acque della Piave Vecchia, oltre le fasce di canneto.

Interessanti sono, inoltre, le presenze faunistiche, con grandi predatori acquatici come il Luccio (Esox lucius) o come le timide rane rosse (Rana dalmatina; R. latastei) nascoste tra le foglie secche della lettiera di sottobosco, o la candida Garzetta (Egretta garzetta) che zampetta sulle secche di limo. Quindi il Rigogolo (Oriolus oriolus), che dal folto delle chiome arboree lancia flautati richiami, che risuonano nei silenzi antichi del fiume. Suggestive sono infine le atmosfere, i colori, le musiche e le luci, che evocano una sacralità purtroppo perduta, creando affascinanti scenografie viventi al ritmo fluente delle stagioni.

La natura dei territori solcati dal basso corso del Piave, tuttavia, esprime interessanti situazioni anche in altri ambienti, trovando spesso rifugio in minuscole nicchie che testimoniano i suoi antichi splendori. Sono la palude e la foresta ad aver lasciato le tracce più suggestive della propria presenza nella Bassa Pianura, dove le antiche lagune erano degradate in acquitrini stagnanti già in epoca medioevale. Nei fossi di bonifica, che percorrono la campagna con fitte trame geometriche, le piante e gli animali che già furono ospiti della palude estinta, hanno trovato un rifugio sicuro. Sono la grande Carpa (Cyprinus carpio) di origine danubiana e dalle squame dorate, la Rana verde (Rana synk. esculenta), la vivace Gallinella d’acqua (Gallinula chloropus) ed il Tuffetto (Tachibaptus ruficollis) a ricordare la vitalità e le voci delle grandi e preesistenti distese palustri.

Accanto alle presenze faunistiche, inoltre, si osserva il ricco corteggio floristico delle acque e della fascia di sponda, con il Nenufaro (Nuphar luteum), il Morso di rana (Hydrocharis morsus-ranae) ed il Giunco fiorito (Butomus umbellatus). Piante acquatiche e palustri che ripropongono i colori delicati di paesaggi d’acqua che appartengono ormai alla sola memoria.

Quanto alla foresta, che ammantava anticamente i territori di Chiesanuova e delle Mussette, di Noventa e di Croce, essa sopravvive in labili tracce presso le vecchie siepi, minacciate esse stesse dalla semplificazione del paesaggio agrario. Sono, in questo caso le viole (Viola hyrta; V. reichenbachiana; V. alba) ed i delicati anemoni (Anemone nemorosa; A. trifolia; A. ranunculoides), il Sigillo di Salomone (Polygonatum multiflorum) e la Pervinca dai fiori azzurri (Vinca minor), a diffondere i profumi di primavere lontane, mentre il canto della Capinera (Sylvia atricapilla) ed il ritmico battito del Picchio rosso maggiore (Picoides major) sul tronco degli alberi, ricordano le musiche arcane di una foresta antica, che la campagna ha sospinto oltre gli orizzonti più lontani fin dall’Epoca romana.

IL MERLO ACQUAIOLO

IL MERLO ACQUAIOLO
signore delle acque turbinose

a cura di Michele Zanetti

Nel panorama vasto e diversificato dell’avifauna italiana, ricco di centinaia di specie, il Merlo acquaiolo (Cinclus cinclus) spicca come uno dei più singolari casi di adattamento ad un ambiente peculiare. La sua ecologia e il suo comportamento alimentare e riproduttivo risultano infatti strettamente correlati all’habitat specifico delle acque alpine, montane e collinari a corrente sostenuta. Al punto che, pur non essendo il piccolo passeriforme dotato dei caratteri morfologici che distinguono ad esempio gli anatidi, il suo rapporto con l’ambiente sommerso delle acque velocemente fluenti risulta pressoché univoco. La presenza di una ghiandola impermeabilizzante per il piumaggio e le notevoli abilità natatorie costituiscono comunque caratteristiche proprie della specie.

Osservare il suo volo rettilineo, radente l’acqua e rivolto verso il suo fluire è un privilegio riservato a quanti sanno apprezzare la natura affascinante delle forre prealpine in penombra o delle valli dolomitiche, dove la luce colora di verde brillante le acque che spumeggiano tra candidi macigni levigati. E tuttavia raramente il fotografo o il semplice cultore delle bellezze naturali conosce adeguatamente questo protagonista schivo, che merita invece un contatto cognitivo approfondito.

 

La denominazione scientifica del Merlo acquaiolo è Cinclus cinclus; la specie appartiene infatti al genere Cinclus e alla famiglia dei Cinclidae, che raggruppa quattro specie appartenenti allo stesso genere. Essa risulta diffusa nell’intero territorio italiano, con elevata densità e continuità sull’arco alpino e sulle Prealpi e in forma discontinua lungo l’intera dorsale appenninica e fino alla Sicilia.

Si tratta di un passeriforme sedentario e territoriale, che compie stagionalmente movimenti altitudinali di limitata entità, potendo tuttavia svernare lungo corsi d’acqua di risorgiva, anche in ambiente d’alta pianura.

Nidifica sotto le arcate dei ponti, nelle nicchie di sponda dei corsi d’acqua a regime torrentizio e persino sotto le cascate, dove i rischi di disturbo antropico e di predazione naturale risultano assai limitati.

La dieta della specie si compone soprattutto di macroinvertebrati acquatici, ovvero di larve di friganeidi, odonati e coleotteri, che cattura in ambiente sommerso, tra i ciottoli del fondale. La tecnica di ricerca del cibo è peraltro significativa dell’adattamento del merlo acquaiolo al suo habitat elettivo; l’individuo si posa infatti su un sasso a pelo d’acqua, dondolandosi in modo caratteristico, per poi immergersi, tuffandosi letteralmente nelle acque turbinose e spostarsi sul fondo a nuoto o camminando e utilizzando le ali per vincere la forza della corrente. Talvolta, prima di farlo, l’individuo immerge semplicemente il capo, per valutare la situazione, quindi si tuffa velocemente. Sul fondo avviene la ricerca delle prede, catturate rovistando tra le pietre; al termine della ricerca l’individuo esce dall’acqua talvolta spiccando direttamente il volo.

 

Il merlo acquaiolo presenta una lunghezza pari a cm 17, ma il profilo del corpo, tozzo e con la coda breve e rialzata, ricorda quello delle scricciolo, come pure il canto, che può essere udito anche nei mesi invernali. Il nido è voluminoso e costruito prevalentemente con muschio; le uova, che sono in genere 4-5, vengono incubate dalla femmina per 16 giorni, mentre la prole viene accudita da entrambe i genitori.

La specie condivide l’habitat con i piccoli passeriformi che frequentano le sponde dei torrenti e dei ruscelli, o le forre umide e ombreggiate. Tra le altre figurano lo Scricciolo (Troglodytes troglodytes) e la Ballerina gialla (Motacilla cinerea). A differenza di queste specie, tuttavia, il merlo acquaiolo costituisce un importante indicatore bio-ecologico, poiché la sua presenza conferma l’integrità e la ricchezza dell’ecosistema torrentizio e in particolare la cospicua presenza degli invertebrati diffusi nelle acque velocemente fluenti e di ottima qualità.

 

Bibliografia minima

  • Frugis S. (a cura di), 1972, Enciclopedia degli uccelli d’Europa, vol. 2°, Rizzoli Editore, Milano
  • Meschini E., Frugis S., (a cura di), 1993, Atlante degli uccelli nidificanti in Italia, Suppl. Ric. Biol. Selvaggina, XX: 1-344

Incendi devastanti in Amazzonia

Mi ha indotto a scrivere un malessere che cova muto dentro il mio animo, da giorni, da settimane.
Per questo, infine, ho ceduto alla tentazione, correndo il rischio di parlare di cose ovvie, scontate o, peggio, ridondanti.
Lo faccio per sollevare il peso che grava, silenziosamente, nel mio cuore, confidando nel sollievo della condivisione, che sempre lenisce in qualche misura le nostre angosce. E lo faccio per parlare, brevemente, di Taigà, di Amazonas e di Gran Canaria. In altre parole, per parlare degli incendi devastanti e dunque dell’Apocalisse non ancora adeguatamente compresa e denunciata, che sta sconvolgendo il Pianeta in questo triste 2019.

Ma lo faccio, al tempo stesso, con la consapevolezza che saranno pochissimi a condividere pienamente il mio sentire; semplicemente perché pochissimi sono coloro che, essendo dotati di adeguate conoscenze naturalistiche, sono in grado di comprendere l’effettiva dimensione della tragedia planetaria in atto.

La gente, la gente comune italiana, quella che i sondaggi ci dicono, settimanalmente, che voterà in certa misura per la Lega, per il M5S o per il PD, sembra infatti non curarsi più di tanto di eventi che sono infinitamente più importanti, per il suo futuro, dei destini della mediocre politica nazionale. E se se ne occupa, pensa semplicemente che stia andando in fumo qualche decina o qualche centinaio
di milioni di alberi e che il problema sia semplicemente quello dell’incremento dell’anidride carbonica nella bassa atmosfera.
Beata ignoranza. Grande guida del genere umano, essa lo mette infatti costantemente al riparo dal comprendere l’entità delle sue colpe e l’irreversibile dimensione dei guasti che egli determina al Pianeta vivente, evitandogli di impegnarsi per cercare e trovare soluzioni adeguate. Una ignoranza scientifica grassa e subalterna alla cultura umanistica e religiosa, che quando c’è è comunque un limite grave, essendo che pone l’uomo al centro dell’Universo, lo identifica come “figlio di dio, fatto a sua immagine e somiglianza” e gli mette a disposizione tutte le risorse del Pianeta, senza limite alcuno.

Eppure non dovrebbe essere difficile comprendere che con la Taigà siberiana, con le foreste canariensi e con la leggendaria Amazzonia, sta andando in fumo il futuro nostro e delle generazioni umane che verranno. Che sta andando in fumo la vivibilità di questo pianeta e, soprattutto, l’inestimabile e irripetibile patrimonio genetico elaborato dal Sistema vivente per decine di milioni di anni e garanzia di continuità della vita sullo stesso Pianeta Terra. Un patrimonio in larga parte ancora inesplorato per la scienza dell’uomo, che si vanta con stupida supponenza, di progettare l’invio di esseri umani su Marte nel prossimo futuro.
Ma ciò che sconvolge è che tutto questo, che questo mandare in fumo il più inestimabile dei tesori, è dovuto all’indifferenza di padroni distratti da altri affari, come nel caso della Russia capital-populista di Putin. Oppure alla connivenza criminale con gli “allevatori di bistecche” del Brasile capital-nazista di Bolsonaro. Il tutto in silenziosa e indifferente combutta con il capitalismo feroce
delle multinazionali, siano esse a matrice USA, canadese o cinese.

Perché la scimmia umana, lo scimmione stupido e obeso che ormai siamo – e pensare che in origine eravamo un primate della classe ponderale dei 50 kg – è una inveterato consumatore di carne, di bistecche al sangue, di fiorentine, di cosciotti, di lombate e quant’altro. E questo consumo smodato e dannoso alla nostra salute, fa pagare un prezzo elevatissimo al Pianeta vivente.
Che dire, a questo punto della mia personalissima e, spero condivisa, lamentazione. Dico che è semplicemente indispensabile fermarli; e che si deve farlo con i comportamenti quotidiani, con la denuncia, con la divulgazione culturale, con le scelte politiche, con la partecipazione. In altre parole, con gli strumenti della Democrazia, che per quanto scalcinata, per quanto deformata, per quanto controllata e indirizzata dai poteri economici forti, dalle multinazionali della chimica, dell’energia e delle materie prime, è pur sempre il miglior strumento di cui disponiamo.
Le rivoluzioni, quelle portate fino in fondo, con esiti spesso tragici per interi popoli, rimangono certo una tentazione, ma soltanto per i poveri del Pianeta, per i disperati. I ricchi e dunque noi, sanno bene che, purtroppo, esse non portano da nessuna parte, perché finiscono per vincere sempre i più forti economicamente e che il Che Guevara è soltanto un santo martire da pregare.

Parlare di natura

Per alcuni decenni ho esercitato la mia vocazione divulgativa parlando in pubblico di argomenti naturalistici. I temi affrontati sono stati numerosi e molto diversi e quasi sempre ho accompagnato le mie parole con immagini; altrettanto spesso, poi, ho affrontato dibattiti anche appassionati su temi e strategie ambientali. Complessivamente ritengo di aver affrontato ben oltre un migliaio di incontri; cosa che mi ha consentito di conoscere decine di migliaia di persone.

Parlare in pubblico mi piace e riesco a farlo sentendomi a mio agio sia davanti a dieci persone che di fronte a trecento. Qualche volta mi sono persino emozionato, parlando delle cose che mi stanno a cuore, ma la soddisfazione maggiore in assoluto mi giunge dalla sensazione di essere riuscito ad emozionare anche chi mi ascolta.